Alle origini del disastrato debito pubblico

di Giuseppe Masala

Se si vuole analizzare l’attuale fase storica, pare assolutamente necessario comprendere l’origine e lo sviluppo di quel fenomeno, che a detta dei sacerdoti (economisti e giornalisti) che occupano il flusso d’informazione mainstream, è la causa di ogni male: il debito pubblico.

Per comprendere chiaramente il fenomeno è necessario individuarlo e definirlo correttamente. Nel profluvio di interpretazioni mi è apparsa fulminante, concisa e quanto mai intelligente la definizione data dall’economista Vladimiro Giacché: il debito pubblico non è altro che trasferimento di ricchezze, sotto forma di stipendi ai dipendenti pubblici, interessi corrisposti ai risparmiatori,  prestazioni di welfare per i cittadini e appalti concessi ai privati per il funzionamento della macchina pubblica[1]. In altre parole, dunque, il debito pubblico è ricchezza trasferita dallo Stato al settore privato.

Appare, a questo punto evidente, che un taglio del deficit statale (null’altro che la quota di debito pubblico di un determinato anno) si traduce immediatamente in una diminuzione della ricchezza del settore privato (famiglie e imprese).  Non basta, in relazione al cervellotico (perché rapporta uno stock con un flusso) parametro di Maastricht, si può evincere come un taglio della quantità al numeratore (debito) si traduce immediatamente in una diminuzione della quantità al denominatore (PIL, la ricchezza prodotta in un anno dalla nazione) rischiando addirittura di peggiorarne il rapporto.

Qualora si volesse credere all’esistenza di menti superiori, di poteri occulti (questi per la verità esistono ma non controllano, influenzano) e di organizzazioni in grado di controllare le sorti del mondo occidentale, sarebbe facile ipotizzare che il folle meccanismo congegnato sia frutto di menti che non volevano risolvere il problema del debito pubblico ma in realtà creare un fenomeno di dipendenza al fine di drenare risorse dai popoli a vantaggio di chi investe colossali cifre nel finanziamento dei cosiddetti debiti sovrani. Molto più efficiente però il ragionamento di chi crede che la stupidità sia l’unico elemento presente in quantità infinite nell’universo e che i danni maggiori si verifichino quando questa si accompagna al dogmatismo e alle credenze fideistiche in una qualsiasi dottrina.

Così infatti è accaduto quando si è congegnata una unione monetaria figlia della fretta e della cieca fiducia nelle dottrine economiche neoliberiste che credono per dogma come le contrazioni causate da politiche di bilancio restrittive possano essere compensate, dall’eventuale creazione di ricchezza frutto di privatizzazioni (anche di monopoli naturali!) e liberalizzazioni selvagge[2].

Premesso tutto questo non resta che provare a comprendere come si è creato, nelle attuali enormi dimensioni, l’attuale debito pubblico italiano.  Secondo il luogo comune trasmesso nelle televisioni e scritto nei giornali, parrebbe chiaro che la causa ultima della crescita stratosferica del debito pubblico sia dovuto ad un sistema di welfare estremamente generoso con i cittadini. Infatti la ripetizione ossessiva delle giaculatorie del “abbiamo vissuto sopra le nostre possibilità” e del “non si può dare tutto a tutti” stanno li ad indicare chi sia il colpevole. Sarà veramente così?

Andando a verificare sui preziosissimi bollettini[3] della Banca d’Italia scopriamo che il rapporto tra il debito pubblico italiano e il Pil oscilla sul 60% fino agli inizi degli anni 80, di poco superiore a quella che è la media dei principali paesi dell’Europa occidentale. Da questi anni in poi la curva italiana del rapporto debito/Pil (ma anche il debito in valore assoluto) tende a crescere esponenzialmente, tra l’altro aprendo una forbice tra quella che è la curva italiana e quella della media dei paesi dell’Europa occidentale nei quali il rapporto rimane sempre nell’intorno del 60% del Pil.

Bene, questo è dovuto ad una esplosione dei deficit annui italiani, che ricordo è la “quota” di debito prodotta nell’anno e che va a sommarsi a quella degli anni precedenti formando appunto il “debitone complessivo”. Il Deficit Italiano  negli anni ’80 ebbe infatti una crescita media del 10,7% annuo in rapporto al Pil distanziando enormemente il 4% che fu la media dell’Europa a 15 in quegli anni. Di consenguenza il rapporto debito/pil raggiunse il 55% nel 1985 e il 121,5% nel 1994. Situazione dalla quale non ci siamo più risollevati nonostante anni di politiche di contenimento della spesa pubblica e privatizzazioni selvagge dei beni dello Stato.

E’ evidente che in quegli anni avvenne qualcosa che ha portato a questa esplosione. Preziosissimi, ancora una volta i bollettini statistici della Banca d’Italia[4], dai quali si evince che non fu la spesa primaria (in buona sostanza, pagamento degli stipendi, spese per il welfere e per il funzionamento della macchina dello Stato come per esempio Difesa e Giustizia) ad esplodere rimanendo anzi sotto la media degli altri paesi dell’Unione Europea, ma quella per gli interessi sul debito. Dagli anni ottanta, bollettini statistici della Banca d’Italia alla mano, questi ultimi si divaricarono enormemente rispetto alla media UE arrivando al culmine nel 1993 quando raggiunsero un tetto del 13% circa e con uno spread rispetto a quelli della media UE di circa l’8% (800 punti base direbbero i mezzibusti Rai che si collegano dalla Borsa di Milano). Un enormità non giustificabile visto che, sempre Bollettini della Banca d’Italia alla mano, non vi era di certo una spesa primaria superiore rispetto alla media UE per pagare un premio per il rischio così alto, anzi.

Risolviamo ora il mistero. Fino al 1981 la Banca d’Italia aveva l’obbligo di sottoscrivere i titoli pubblici (Bot, CCT, BTP ecc.) emessi dal Ministero del Tesoro e rimasti invenduti (in buona sostanza quello che tantissimi vorrebbero facesse oggi la BCE). In quell’anno per iniziativa del ministro Andreatta e in stretta collaborazione con l’allora Governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi fu sancita la fine di questo obbligo, lasciando al “mercato” (eufemismo per indicare un numero ristretto di banche commerciali) il diritto di sottoscrivere o meno i titoli di stato e soprattutto di deciderne il prezzo (tasso d’interesse). Inutile dire che così si lasciava alle banche un potere enorme, in sostanza il potere di spolpare lo Stato generando una crisi finanziaria rifiutandosi di sottoscrivere i titoli o comunque di chiedere un tasso d’interesse enormemente elevato ed ingiustificabile rispetto a quanto avveniva nei paesi europei nostri partner.

Naturalmente inutile immaginare chissà quali complotti dietro questa scelta sciagurata, basta e di gran lunga per comprendere l’avvenimento, la solita visione ideologica che vede nel mercato (sic) la panacea per tutti i mali e la cornucopia dell’abbondanza. Salvo, a distanza di anni, trovarsi di fronte a problemi insormontabili dove, per assurdo, una classe dirigente fanatizzata, vuole risolvere gli sconquassi del “libero mercato” promuovendo misure ancora più liberiste e improntate a quel Washington Consensus che è visto come la legge scolpita dal Dio di Mosé sulle pietre del Monte Sinai!

Lascio ora la parola a Beniamino Andreatta, uno dei massimi protagonisti di questo cosiddetto “divorzio” tra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro: “Naturalmente la riduzione del signoraggio monetario e i tassi di interesse positivi in termini reali si tradussero rapidamente in un nuovo grave problema per la politica economica, aumentando il fabbisogno del Tesoro e l’ escalation della crescita del debito rispetto al prodotto nazionale.”, e ancora: “Il divorzio non ebbe allora il consenso politico, ne’ lo avrebbe avuto negli anni seguenti; nato come “congiura aperta” tra il ministro e il governatore divenne, prima che la coalizione degli interessi contrari potesse organizzarsi, un fatto della vita che sarebbe stato troppo costoso – soprattutto sul mercato dei cambi – abolire per ritornare alle piu’ confortevoli abitudini del passato.”[5].

In sostanza una confessione. Il divorzio, a detta dello stesso Ministro del Tesoro Andreatta, è stata la causa dell’esplosione del debito ed inoltre l’operazione non aveva il consenso politico solo che fu organizzata in maniera tanto veloce da non consentire agli avversari politici di organizzare le sacrosante barricate!

Altro si potrebbe dire in materia di debito pubblico, a partire dall’inettitudine della classe politica che ci ha governato in alternanza in questi dieci anni e che non ha approfittato del beneficio di tassi di interessi bassi per mettere in sicurezza il bilancio dello stato.

Ma vorrei concludere dicendo che, a mio avviso, quando uomini politici, economisti e giornalisti espongono, speriamo in buona fede, che la causa del nostro debito è un Welfere troppo generoso ed elencano alcuni assurdi privilegi, effettivamente esistenti come le “baby pensioni”, bisogna ricordare che a fronte di questi privilegi intollerabili vi sono milioni di giovani privati di qualsiasi copertura di protezione sociale.

Allo stesso tempo il recupero di risorse da intollerabili fenomeni come l’evasione e l’elusione fiscale così come la corruzione non incidono (o non dovrebbero incidere) sulla diminuzione dello stock del nostro debito. Le risorse recuperate dall’elusione e dall’evasione devono andare a finanziare un abbassamento di una pressione fiscale sicuramente opprimente mentre invece le risorse recuperate al deplorevole fenomeno della corruzione devono essere destinate al miglioramento delle infrastrutture e dei servizi offerti dallo Stato. Sempre che non si decida di uccidere il male sopprimendo anche il paziente.


[1] Intervento di Vladimiro Giacché nel  Seminario: “Per un analisi marxista dell’attuale crisi economica”. http://www.federazionedellasinistra.com/federazione/?p=5748

[2] Per chi volesse approfondire le tematiche relative a questa visione delle politiche economiche mi permetto di consigliare la lettura del paper “A Short History of the Washington Consensus” di John Williamson scaricabile liberamente su internet all’indirizzo http://www.iie.com/publications/papers/williamson0904-2.pdf

[4] In particolare si consultino i grafici a pagina 11 (figura 2) del “Supplemento al bollettino statistico – indicatori monetari e finanziari – Statistiche di finanza pubblica nei paesi dell’Unione Europea” Anno XI, numero 62 del 15 Novembre 2001, consultabile via internet a questo indirizzo: http://www.bancaditalia.it/statistiche/finpub/pimfpe/sb62_01/suppl_62_01.pdf

[5] Beniamino Andreatta, “l divorzio tra Tesoro e Bankitalia e la lite delle comari”, scritto pubblicato sul Sole24ore del 26 Luglio 1991 e consultabile su internet al seguente indirizzo, http://www.ilsole24ore.com/fc?cmd=art&artId=891110&chId=30