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Cuore, batti la battaglia!

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I bersagli sbagliati dello sdegno umanitarista

 

Il coro dello sdegno umanitarista sta battendo la lingua sul tamburo a tutta forza: a lanciare l’attacco chimico a Idlib è stato il dittatore sanguinario Assad appoggiato dall’altro dittatore sanguinario (e omofobo, ovviamente) del Cremlino che solo ieri – sempre a detta del circo rosé dallo sdegno a comando e a fasi alterne – avrebbe fatto mettere delle bombe nella sua città natale nell’ambito di una strategia della tensione.

Ovviamente a battere la lingua sul tamburo va in prima fila l’incessante riflesso squadrista di Travaglio e del suo giornale delle forche e delle manette, tutto il carrozzone del Manifesto, Zucconi e tutti i “buoni” dell’informazione, come quelli di Gazebo, megafoni chissà se inconsapevoli delle ONG legate ad Al-Qa’ida. 

Ma la cosa più preoccupante è che tutti i politici rosé si sono lanciati in Alti Lai e digrignar di denti contro Assad. 

 

Dal presidente francese Hollande all’Alta Rappresentante Mogherini, tutti chiedono conseguenze, noncuranti del fatto che attaccare la Siria significa giocare con il fuoco: il dittatore sanguinario e omofobo del Cremlino già anni fa ha avvertito che marciare su Damasco è equivalente a marciare su Mosca, con tutte le risultanze finali del caso. L’altro omofobo e maschilista della Casa Bianca sta prendendo tempo ma è chiaro che la manovra è rivolta anche contro di lui: gli vogliono torcere il braccino per obbligarlo a continuare la politica estera di Obama e della Megera Ridens che ha perso le elezioni, una politica di scontro totale contro la Russia e contro Putin fino alle estreme conseguenze.

 

Mi limito qui a ricordare che nel 2013 l’attacco chimico del 21 agosto alla Ghouta, presso Damasco – inizialmente attribuito ad Assad con grande sdegno di tutti i carrozzoni nazi-progressisti rosé – fu infine attribuito dall’inchiesta dell’ONU guidata da Carla Del Ponte ai “ribelli moderati” (che però quando tornano da noi completamente impazziti dalla guerra e prendono un camion riducendo in poltiglia decine di persone ridiventano “terroristi”).

 

Le inchieste giornalistiche alla fine riuscirono ad appurare che dietro all’attacco c’erano i servizi USA e Sauditi. 

Si legga l’inchiesta di Christof Lehmann dell’americana NSNBC (certamente non imputabile di essere filo Assad e filo Putin). 

E si legga il grande giornalista investigativo Seymour Hersh, che sulla London Review of Books pubblicò un’inchiesta convincente, sulla bufala chimica anti-Assad.

 

Perfino il Massachusetts Institute of Technology contraddisse fin nei dettagli l’amministrazione Obama, che pure aveva accusato Bashar al-Assad dell’attacco chimico. A settembre si giunse a un passo dai bombardamenti sulla Siria e forse per questo lo studio Mit si intitolò Le possibili implicazioni degli errori dell’intelligence statunitense riguardo all’attacco al gas nervino del 21 agosto 2013. E non basta: Richard Lloyd (ex ispettore delle Nazioni Unite sugli armamenti) e Theodore Postol stimarono che la gittata del missile rudimentale ritrovato dagli ispettori ONU non poteva essere superiore ai 2 km, e che pertanto, vista la mappa delle forze schierate che aveva presentato proprio la stessa Casa Bianca il 30 agosto, il punto di lancio doveva necessariamente essere nelle zone controllate dai miliziani jihadisti.

Si tratta di fatti alla portata di tutte le redazioni e dovrebbero essere considerati pietre miliari acquisite presso ogni organo di informazione. Tutti sono nelle condizioni di sapere come funziona e smontare il meccanismo. Invece no. La storia vera viene cancellata dalla cronaca falsa e il supplizio del lettore e dello spettatore ricomincia da capo con lo schema che prepara la guerra.

 

I manipolatori seriali nazionali (da Travaglio a Zucconi passando per lo stanco rimorchio del Manifesto) e internazionali (a partire da al Jazeera per finire con la Reuters) ovviamente sono campioni della dimenticanza.

 

Pezzo pubblicato originariamente su Megachip

 

Il razzismo, l’autorazzismo e il transfert dei sardi

 

Davvero raramente mi occupo di Sardegna ma oggi vi voglio raccontare una piccola storia emblematica.

Alcuni comuni del Goceano (regione storica della Sardegna a cavallo tra Logudoro e Barbagia) hanno fatto richiesta di trasferimento alla provincia di Nuoro da quella di Sassari. In apparenza si tratta di  una piccola storia priva di alcuna rilevanza reale dove – al solito – la popolazione si divide in favorevoli e contrari.

Oggi però sfogliando la Nuova Sardegna (pagina 15 dell’edizione del 30 Marzo 2017), mi sono imbattuto in una lettera rivelatrice.

Lo scrivente, fervente sostenitore della tesi secondo la quale il Goceano deve rimanere nella provincia di Sassari, cade in un paio di infortuni dialettici davvero importanti.

  1. Dichiara che le popolazioni del Goceano non sono figlie, come i nuoresi, di quella cultura nata <<dalla frequenza alle “carceri e al tribunale per le cause penali e civili”>>;
  2. Sostiene che <<Non mi pare che […] i romanzi di Grazia Deledda siano alimento culturale delle comunità del Goceano>>

Parto dal secondo punto. Grazia Deledda è un’intellettuale di portata universale e di respiro internazionale. Per quanto mi riguarda (e con buona pace di molta critica letteraria cialtrona che la paragona ai grandi russi) è figlia legittima di quell’Honoré de Balzac autore de La Comédie humaine. Con la sua poetica, per certi versi, ne è l’erede: le sue opere ambientate in Barbagia ci raccontano l’umanità tutta in tutte le sue sfaccettature.  Appare davvero incomprensibile (o anche troppo comprensibile) un’uscita nella quale si rivendica di non “cibarsi” della poetica dell’autrice nuorese. Sardi che si vergognano di Grazia Deledda perché barbaricina?

Per quanto riguarda il primo punto siamo di fronte ad un elemento davvero preoccupante. Il vecchio “folklore nero” (cito Sciascia) autorazzista che vede il barbaricino bandito e delinquente di cui gli altri sardi devono vergognarsi è ancora operante. Credo che non ci sia molto da aggiungere se non esprimere profondo dispiacere per il perdurare di un fenomeno che tanto male ha fatto ai sardi nel corso dei secoli.

Il razzismo e l’autorazzismo sono ancora tra noi.

 

 

 

Semiotica e Moneta

di Carlo Sini (*)

 

In una celebre pagina della Ricchezza delle nazioni Adam Smith si chiede se la tendenza umana a trafficare, a barattare, a scambiare una cosa con un’altra non sia se non la conseguenza della facoltà della ragione e della parola. Vi sarebbe dunque un nesso profondo tra economia e linguaggio, denaro e parola, e in effetti denaro e linguaggio sono due sistemi di segni che caratterizzano in modo eminente l’umano. Uno scambio semiotico come questo non ha riscontro nel mondo animale, se non per cenni embrionali in ogni senso incomparabili.

Che cosa è segno ricordiamolo qui in forma molto sintetica: segno, diceva Peirce, è qualcosa che sta al posto di qualcos’altro; quindi è qualcosa che rappresenta qualcos’altro sulla base dell’uso sociale, ovvero delle risposte comuni. Stando «al posto di», il segno favorisce dunque lo scambio, fornisce una cosa per un’altra o che vale come rappresentante di quell’altra, e ciò fondamentalmente in vista dello scambio di beni e di informazioni. Cioè del possesso di qualcosa e dell’acquisto di conoscenze. È interessante osservare che beni e informazioni si possono scambiare le parti; infatti anche il possesso di un bene informa: se vado in giro su una Ferrari, implicitamente informo che non sono un poveraccio. Se invece so come vanno le cose in luoghi difficilmente accessibili ma per me significativi, è evidente che il possesso di queste informazioni riveste per me la natura di un bene.

Chiediamoci ora quale sia rispettivamente il valore di un’informazione e il valore di uno scambio di beni. Nel primo caso, evidentemente, è che l’informazione sia corretta. Che cosa si debba intendere con il termine ‘correttezza’ non va appiattito, come spesso si fa, sulla base esclusiva delle teorie della informatica novecentesca, teorie che spesso hanno la ridicola pretesa di ridurre alle loro categorie analitiche ogni sorta di messaggio, come chiedersi per esempio quante informazioni contiene la Divina commedia. Le profezie della Sibilla prevedono una loro correttezza di formulazione e d’uso e così i criteri per l’infallibilità del papa o il significato di verità della statistica sociale.

Quanto al valore dello scambio di beni, credo che il criterio sia, in questo caso, che lo scambio sia equo. Ovvero produttivo per entrambi i contraenti, i quali devono altresì essere completamente liberi di addivenire allo scambio oppure no. Il senso di questa «libertà» è peraltro complesso e non facilmente determinabile. Esso non si identifica affatto con l’ottimismo liberistico che lo assegna senz’altro al desiderio soggettivo di aderire allo scambio. Se vi è disparità sul piano del bisogno, nel senso che un contraente può fare a meno senza danno dello scambio in questione e l’altro contraente invece no (è molto spesso il caso del mercato del lavoro), allora lo scambio non è socialmente equo. Così pure, se l’offerta è rivolta a persona ignorante o sprovveduta (per esempio un contraente conosce bene il valore dello scambio in questione e trae profitto dalla totale ignoranza dell’altro contraente circa il valore dei beni comparati), di nuovo lo scambio non è moralmente equo.

Su ciò che abbiamo ricordato sin qui si modellano i due tratti fondamentali del valore economico del denaro, tratti molto noti e in ogni senso preziosi. Il primo tratto è quello del denaro come mezzo di scambio; per esempio in quanto sostitutivo del mero baratto (posto che di reale baratto in economia si possa parlare). Il secondo tratto è quello di incarnare l’unità di misura del valore dei beni scambiati. Si tratta del tradizionale problema di tutta la scienza economica classica: la necessità cioè di stabilire quanto vale il lavoro, quanto valgono i beni prodotti dal lavoro, quanto valgono i beni naturali e così via, stabilendo in proposito un comune denominatore comparativo. Va subito nondimeno osservato un aspetto fondamentale del problema, che per sua natura sfugge al sapere e alla scienza economica. Esso si potrebbe formulare così: se qualcosa è apprezzabile, cioè ridotto a valore economico e dotato, come si dice, di un prezzo, ciò non può accadere se non in relazione a ciò il cui valore è inapprezzabile, senza prezzo, impossibile a risolversi in un pagamento, irriducibile a scambi negoziabili, a essere comprato o venduto: questo è appunto il fondamento dell’economia, la base dell’economico e della scienza economica. Come si debba intendere questo fondamento è problema ineludibile per il senso medesimo dell’economia, anche se sistematicamente eluso dalla scienza economica, ed è nel contempo problema decisivo per chiarire la natura dell’oikos, dell’umano abitare il pianeta.

In base ai due tratti fondamentali del denaro sopra ricordati, il denaro stesso, in quanto segno sociale, acquista a sua volta un valore: ciò che stabilisce il valore di un bene, diventa a sua volta un bene, sicché il mezzo che favorisce e misura lo scambio diventa nel contempo un fine. Nei termini di Marx si potrebbe dire: il mezzo che facilita il mercato delle merci diviene esso stesso una merce. O anche: il mezzo dello scambio si trasforma in finalità dello scambio. In regime capitalistico, il capitale finanziario si trasforma nella merce per antonomasia, quindi nel fine preminente o reale delle transazioni del mercato. Il denaro diventa così il bene più desiderabile e più rappresentativo (per quello scambio con l’informazione che sopra richiamavamo). Di qui si avvia il grande processo di progressiva mercificazione di tutte le relazioni sociali e di tutti i prodotti del lavoro umano. Ogni scambio tra umani si traduce in uno scambio tra cose, a partire dalla cosa modello, il denaro, che misura e riassume in sé tutte le altre: in questa prospettiva, anche la vita umana ha infatti un prezzo.

Su questi aspetti dell’economia moderna e contemporanea molto si è scritto e dibattuto. Forse è ora più produttivo, perché meno noto, osservare che un processo analogo a quello accaduto per il capitale finanziario è in azione anche nel linguaggio, l’altro grande sistema semiotico qui in esame. La funzione della informazione diventa infatti, sempre più, un fine in sé. Infatti l’informazione genera potere e diventa, per chi ne possegga gli strumenti, un bene in sé. Tradotta in potere, accade allora che l’informazione non conti più, o più soltanto, in base al suo essere corretta; ciò che davvero conta è di poterne disporre. Infatti l’informazione stabilisce da sé i suoi criteri di attendibilità e di correttezza, identificando il successo della sua diffusione, potentemente sorretta dal capitale finanziario, con l’autorevolezza e la credibilità del messaggio. Attraverso caratteristiche lotte di potere, l’informazione stabilisce, non solo la credibilità della fonte in base alla potenza sociale acquisita, ma stabilisce anche che cosa merita di essere tradotto in informazione e che cosa no. Come è stato detto: se lo ha mostrato la televisione, e soprattutto certi canali televisivi, la cosa è importante ed è davvero accaduta, altrimenti non è accaduta, o è come se non fosse accaduta affatto, sicché resta nel limbo dell’ignorato e dell’incognito. In generale vi resta ciò che non è commerciabile, cioè riducibile a merce e infine a occasione di incremento del capitale finanziario. Se una cosa non ha prezzo, semplicemente non è.

In che senso però il denaro è un bene? Cerchiamo davvero di com- prendere questo tratto, spesso pacificamente accolto come ovvio. Avevamo parlato di un primo tratto caratterizzante il valore del denaro: il denaro agevola lo scambio. Infatti, se lo scambio è equo, si verifica un oggettivo incremento di beni per entrambi i contraenti. Essi ovviamente offrono allo scambio ciò che per loro è superfluo o sovrappiù; il risultato è che entrambi, venendo in possesso di ciò che è rispettivamente abbondante e scarso, diventano automaticamente più ricchi, i loro beni si moltiplicano.

Di qui allora scorgiamo ora un secondo tratto: se il denaro favorisce gli scambi, più denaro posseggo, più scambi sono in grado di avviare, e così divengo progressivamente sempre più ricco di beni. In questo modo potremmo forse riassumere in estrema sintesi il grande segreto della economia moderna, mercantilistica, capitalistica, industriale e postindustriale. Ne discende necessariamente un terzo tratto: se ciò che precede è vero, è naturale che sempre più si orientino, si favoriscano e si scelgano gli scambi di mercato atti a far guadagnare più denaro, cioè a incrementare il capitale finanziario. Più capitale finanziario, più scambi, più ricchezza di beni e di merci: sembra evidente e nondimeno, a ben vedere, c’è qualcosa che non va. Si potrebbe forse esprimerlo così: diventando esso stesso un bene e una merce sovrana, il denaro orienta il mercato in base ai propri interessi squisitamente finanziari e non allo scambio di beni secondo una loro produzione autonoma. La produzione stessa subisce un processo di selezione: sono beni preferibili o esclusivi solo quelli che producono denaro; gli altri, come si dice, sono «fuori mercato». Il rischio finale di una siffatta economia è di incrementare certamente la ricchezza disponibile, però nel senso della ricchezza di Creso, che rischia la morte per inedia, divenendogli via via preclusi i beni sia materiali sia spirituali.

Il medesimo che qui è, molto succintamente, descritto accade anche per l’informazione e la cosa non è di scarso interesse sociale. L’incremento straordinario delle informazioni, il loro potere sempre più diffuso, fa sì che la loro produzione divenga a sua volta una merce, qualcosa di vendibile e di spendibile. Le fonti dell’informazione selezionano quelle informazioni che producono certi esiti, secondo gli interessi del committente. E poi la fonte, perseguendo il proprio successo economico e d’impresa, diffonde preferibilmente le informazioni più gradite e più spendibili, cioè quei contenuti che più sollecitano i gusti, diciamo così, popolari ecc.; diffondere informazioni corrette diventa invece l’ultima delle preoccupazioni. Poiché l’informazione è certamente una componente indispensabile della vita democratica, essendo il principale strumento che consente ai cittadini e agli elettori di formarsi opinioni politiche autonome e di farle valere nei canali delle istituzioni democratiche, la degenerazione e la corruzione del mondo dell’informazione è l’evidente tallone d’Achille delle odierne democrazie.

Resta il fatto che moneta e informazione sono segni che abbisognano, per funzionare, di un riconoscimento sociale. Nel caso dell’informazione questo riconoscimento è da sempre identificabile con l’autorità della fonte. Un tempo il dio, quindi il suo sacerdote e interprete, il re, il sapiente, il signore, la legge, lo Stato, la scienza e così via, sino alle moderne fonti socialmente autorevoli come la radio, la televisione e la rete. Ma nel caso della moneta che cosa dobbiamo dire quanto al suo riconoscimento?

Dapprima la moneta, il denaro, si garantivano socialmente sulla base della loro materialità. Per esempio il sale o il riso utilizzati come denaro, in quanto beni indispensabili e diffusi, beni comunque utilizzabili in ogni momento da tutti, beni che potevano quindi diventare punto di riferimento e unità di misura per molti tipi di scambi. Poi oro e argento, beni caratterizzati sia dalla loro rarità, sia dalla loro desiderabilità, in quanto segni di prestigio e oggetti esteticamente apprezzabili per loro stessi. Infine il valore sociale attribuito alla autorità coniatrice, garante del valore della moneta coniata.

Qui si apre una storia lunga, complessa e affascinante, per esempio a partire dai banchi di Genova e di Firenze, dalle fiere medievali e della prima modernità, con le loro monete immaginarie; poi, a partire dalla fondazione della Banca d’Inghilterra (1694), con la creazione delle note di banco o banconote, cioè con l’invenzione del fiat money, della pura produzione di denaro dal nulla, per arrivare ai famosi accordi di Bretton Woods che assumevano il dollaro e il tesoro aureo degli Stati Uniti come punto di riferimento universale, quindi alla sospensione della convertibilità del dollaro (1971), sino al sistema attuale della borsa finanziaria e delle agenzie di rating, con l’affermarsi inquietante di una speculazione mondiale senza confini, senza freni e senza controlli.

Proprio così, però, viene allo scoperto il problema dei problemi, ovvero, se si vuole, quel fondamento non-economico dell’economia cui all’inizio accennavamo. Questo fondamento si può dire con una sola, semplice parola: fiducia (pistis, fides). Un fondamento che è radicato nel principio semiotico stesso dell’umano. Detto nel modo più diretto e più semplice: la natura segnica della società umana esige come suo fondamento la credenza nella efficacia del segno, cioè la fiducia nella sua capacità di «rappresentare in absentia». C’è infatti una promessa e un patto (da serbare) che sono alla base di tutti gli scambi sociali. Promessa e patto si potrebbero riassumere così: essere fiduciosi quanto al detto, sia esso linguistico in senso stretto, sia esso rappresentativo del potere di acquisto asserito, cioè in relazione al valore dichiarato della moneta. Il detto la fa infatti da padrone, perché la natura materiale della moneta, per esempio come bene rifugio, è sempre qualcosa di relativo e di transeunte. L’oro non fa piovere e le banconote non producono alimenti, che è poi la già accennata verità di Creso.

Tuttavia il moderno capitale finanziario fa emergere, come mai o come mai altrettanto prima, un quarto importantissimo tratto del denaro: la sua indispensabilità ed efficacia economica e sociale nello svolgere la funzione della anticipazione del capitale. Solo la massiccia e sistematica anticipazione del capitale, infatti, produce davvero e infine la auspicata ricchezza delle nazioni: lo stesso Marx a suo modo lo riconosceva. Qui ritroviamo in azione quel fondamento extra o pre-economico che indicavamo col termine ‘fiducia’: l’anticipazione del capitale ha fede nelle capacità creative e produttive umane. Senza questa grande rivoluzione economico-finanziaria nulla della straordinaria evoluzione della vita moderna sarebbe comprensibile o realizzabile. Vi è però un problema, oggi ampiamente dibattuto: il credito instaura quel tasso di interesse che si traduce in un debito praticamente infinito. La produzione resa possibile dall’anticipazione del capitale deve ogni volta superare se stessa (fenomeno che spesso si descrive come necessità di un incremento senza fine del Prodotto Interno Lordo): bisogna sempre produrre di più e ancora di più, mentre i conti non si chiudono mai. C’è un debito sociale strutturalmente inestinguibile, che può essere letto sia ottimisticamente come progresso economico e civile, sia come catastrofe sociale e ambientale planetaria.

Non possiamo rinunciare ai benefici della anticipazione resa possibile dal capitale finanziario, volano indispensabile del lavoro e del benessere nel pianeta; ma dobbiamo nel contempo tenere fermo e ribadire che il mercato è in funzione, in ogni senso, della vita, non il contrario. Proprio il lavoro infatti, inteso nel senso più ampio, è l’unico reale fondamento del valore; perciò il suo valore è incalcolabile e inapprezzabile: non ha propriamente un prezzo. Dal lavoro ha origine il mercato e nel lavoro il mercato trova il suo autentico fine; quindi il lavoro non può essere, in ultima istanza, oggetto di mercato, ma è fine sociale in sé. La relazione moderna del lavoro con il capitale finanziario non può quindi essere in ostaggio dei meri interessi privati, come alcuni economisti (per esempio Stiglitz) non si stancano oggi di ripetere. Il denaro è uno strumento e un bene sociale, molto prima di diventare un possesso individuale, e se è vero che non si può pretendere che l’azione dell’individuo si modelli interamente sull’interesse collettivo (pretesa poco saggia e irrealistica), resta nondimeno valido il famoso invito di Keynes: «Ciò che il privato cittadino non ha interesse a fare, lo faccia lo Stato». Vero è che la portata odierna degli interventi dell’autorità statale è notoriamente problematica, sicché, da questa prospettiva, si aprirebbero ulteriori elementi di riflessione e di analisi.

Venendo all’informazione, anche qui bisogna ribadire che suo unico fondamento e suo fine legittimo è la produzione e la diffusione di conoscenza, non l’imposizione di messaggi superstiziosi, conformisti, governati da finalità private e da meri conflitti di interessi. In questo senso le forze sociali preoccupate degli interessi collettivi, cioè dei beni fondamentali che rendono possibile e che dovrebbero governare la coesistenza pacifica, dovranno decidersi a operare, per dire in fretta, sia contro il capitale, sia contro l’informazione. Per esempio nella direzione della creazione di una moneta a progetto (esperimenti in tal senso sono già allo studio): denaro non cumulabile, non tesaurizzabile in forme private, perché esso esaurisce il suo compito con la realizzazione per la quale è stato creato. Per quanto invece si riferisce al sistema mondiale dell’informazione non si può che pensare a una difesa pubblica della cultura, in opposizione frontale con le degenerazioni che caratterizzano la produzione e la diffusione dei messaggi, oggi inflessibilmente modellati sulla logica dello spot pubblicitario: una logica che ha invaso anche i territori del lavoro scientifico, letterario, filosofico, artistico ecc. Difesa o ripristino quindi di una cultura che non viva di occasionali elemosine elargite da banche e da Stati per altro verso totalmente asserviti alla logica del capitale, ma che sia interesse collettivo salvaguardare nella sua capacità di generare reale conoscenza, accessibile a tutti o ai più, e continuamente in via di verificazione e di validazione intersoggettiva.

Solo per queste vie mi sembra possibile ripristinare quella fiducia che è alla base dell’intero processo produttivo. Tutta la nostra vita ne è segnata sin dalla nascita. Anzitutto nella forma che, con un’espressione mutuata da George Santayana, si potrebbe riassumere con le parole «fede animale». Questa fede è al servizio della catena dei viventi di questo pianeta, nella duplice forma che li caratterizza. Da un lato la loro intera esistenza sembra destinata e segnata dalla preoccupazione rivolta alle generazioni future, in una reciproca fiducia che lega i generati e i generanti; da un altro lato questa destinazione deve nondimeno passare attraverso l’incarnazione individuale e quindi ispirare la fiducia di essere investiti da una sorta di possibile preferenza del destino nella lotta per riprodursi e per sopravvivere.

In secondo luogo la fiducia concerne noi umani, in quanto esseri dotati di ragione e di linguaggio, come diceva Smith, e perciò capaci di quel patrimonio di conoscenze universali che caratterizzano la natura culturale del nostro lavoro, materiale e intellettuale. Qui la fiducia si esprime, per esempio, in termini kantiani. Cioè come legittima speranza di poter conoscere sempre meglio la casa che il destino ci ha assegnato nel mondo, sebbene mai in una forma definitiva che pretenda di esaurire la vita cosmica nelle forme contingenti e storiche delle nostre mappe sapienti; e poi come speranza di renderci infinitamente sempre più capaci di abitarla saggiamente, ponendo a suo fondamento non la violenza e la guerra, ma la pace e il diritto universale delle genti.


Bibliografia
AA.VV., L’economia palaziale e la nascita della moneta: dalla Mesopotamia all’Egeo, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 2005.
Amato, Massimo, Le radici di una fede. Per una storia del rapporto tra moneta e credito in Occidente, Bruno Mondadori, Milano 2008.
Marx, Karl, Il Capitale, Libro terzo, a cura di B. Maffi, Utet, Torino 2013. Natoli, Salvatore, Il rischio di fidarsi, il Mulino, Bologna 2016.
Papi, Fulvio, Dalla parte di Marx. Per una genealogia dell’epoca contemporanea, Mime- sis, Milano-Udine 2014.
Redaelli, Enrico, Far lavorare gli Dei. Dal debito primordiale al debito pubblico, in C. Sini (a cura di), Prospettive della differenza, Lubrina, Bergamo 2014.
Sini, Carlo, Del viver bene, Jaca Book, Milano 2015.
Smith, Adam, La ricchezza delle nazioni, trad. it., Utet, Torino 1950.
Zhok, Andrea, Lo spirito del denaro e la liquidazione del mondo, Jaca Book, Milano 2006.

(*) Carlo Sini (Bologna, 1933) è un filosofo italiano. Laureatosi con Enzo Paci, è attualmente titolare della cattedra di filosofia teoretica dell’Università Statale di Milano. È membro dell’Accademia dei Lincei e dell’Institut International de Philosophie di Parigi. Sini è stato tra i primi ad introdurre all’attenzione del pubblico italiano l’importanza dell’opera di Charles Sanders Peirce, e ha inoltre proposto un filone di ricerca sulla convergenza teoretica dei percorsi filosofici di Peirce e Heidegger sul filo dell’ermeneutica benché la sua formazione didattica fosse di orientamento prevalentemente fenomenologico.

Fonte: Nòema

Gli ultimi giorni dell’ideologia Liberal

mondo

In un articolo documentato quanto aspramente ironico, l’antropologo Maximilan Forte annuncia sul suo blog Zeroanthropology il crollo imminente dell’ideologia liberal progressista. E dei Democratici, che all’ideologia progressista hanno legato le loro fortune. Una minuziosa disamina degli errori commessi durante la campagna elettorale della Clinton, delle scomposte reazioni dei Democratici alla sconfitta, della complicità della grande stampa – che crea fake news sostenendo di lottare contro le fake news – e di una classe accademica elitista che si è trasformata in una sorta di nuova aristocrazia. Forte mostra i sedicenti campioni del pensiero progressista come una nuove élite devota alla meritocrazia – e di conseguenza indifferente alla solidarietà – che ha preteso di insegnare al popolo che cosa era buono e giusto, a dispetto di quello che il popolo stesso sperimenta nella propria vita: ed è quindi stata abbandonata dal popolo, che ha votato altrove. 

 

di Maximilian Forte, 18 gennaio 2017

traduzione di @gr_grim

Come l’ortodossia, il professionalismo e politiche indifferenti hanno definitivamente condannato un progetto del diciannovesimo secolo

Che spettacolo eccezionale. Questi sono gli ultimi giorni, presto inizierà il conto alla rovescia delle ultime ore per lo sconfitto progetto politico liberal, ereditato dal XIX secolo. Il centro – se ce n’è mai stato uno – alla fine non ha potuto reggere (citazione del “Secondo Avvento” di W.B.Yeats – NdT). Che meraviglia vedere una delle ideologie dominanti, colonna portante del sistema internazionale, portata in trionfo sin dalla fine della Guerra Fredda con una boria e una certezza sconfinate, precipitare a faccia in giù nella pattumiera della storia. È caduta di schianto, come se una folla inferocita l’avesse spinta da dietro, anche se i suoi difensori sosterranno che sono stati semplicemente commessi degli “errori”, come se fossero scivolati sulla più grande buccia di banana della storia. E che spettacolo: chi si sarebbe mai aspettato una simile mancanza di dignità, una così patetica isteria, insulti così infondati, minacce così vuote provenire da coloro che si auto-incensavano come valorosi statisti, che parlavano come se avessero il monopolio della “ragione”. E anche se questa rovinosa caduta avrebbe potuto essere ben peggiore, non sono mancate violenza, minacce, boicottaggi, e persino denunce di tradimento, fatte apposta per delegittimare la scelta degli elettori.

La democrazia liberal è stata ridotta a un guscio vuoto, più un mero nome che una realtà meritevole di questo nome. Per molti anni l’ideologia liberal si è identificata con l’autoritarismo liberale, o post-liberalismo, o neo-liberalismo, con un disprezzo elitista della democrazia e una diffusa paura delle masse, ovunque. Le promesse di inclusione, giustizia sociale e welfare sono state sostituite da trucchi retorici solo in apparenza sensibili e da concessioni puramente formali. Narcisismo morale, ostentazione di pubbliche virtù, politiche identitarie e costruzione di patchwork rattoppati di inclusività sono stati all’ordine del giorno. Le proteste venivano incoraggiate all’estero, contro nazioni-bersaglio, al fine di “promuovere la democrazia” – mentre in patria venivano represse da una polizia sempre più militarizzata. Si davano lezioni sulla trasparenza e sulla responsabilità in giro per il mondo, mentre in patria c’era solo sorveglianza di massa, spionaggio interno, e una stretta su chi denuncia da dentro quello che non va nelle istituzioni. I leader progressisti si dipingevano come difensori della pace e dell’ordine, mentre moltiplicavano le guerre. Lo stesso Obama è personalmente responsabile per l’omicidio di migliaia di persone, molte delle quali civili – nel solo 2016, gli Stati Uniti hanno sganciato una media di 72 bombe al giorno, ogni giorno, in guerre combattute in sette Paesi. Obama ha supervisionato la rapida accelerazione del trasferimento della ricchezza (dai poveri agli ultra-ricchi, ovviamente – NdT) e dell’aumento della povertà nazionale, mentre veniva lodato da accademici e scrittori di pseudosinistra per aver “governato bene”, e averlo fatto con professionalità ed eleganza. La sinistra nordamericana ed europea, che ha fatto pace e si è accordata con l’imperialismo liberale, affonda assieme a quelli che, alla fine, l’hanno ricompensata così poco. Ancora una volta, l’imperialismo sociale sinistrorso si rivela un fallimento, mentre getta le fondamenta per chi lo rimpiazzerà.

E non è una cosa da poco quella che si è schiantata al suolo, non è stata la semplice sconfitta di Hillary Clinton e il rifiuto dell’“eredità” di Obama da parte degli americani. No, stiamo assistendo all’irreparabile sgretolamento di una serie di istituzioni, di una classe di “esperti” e di una rete di alleanze politiche e corporative. Ci troviamo nei primissimi giorni di una transizione di carattere storico, quindi non è ben chiaro che cosa ci aspetta dopo, e le etichette che stanno proliferando dimostrano solo confusione ed incertezza – populismo, nativismo, nazionalismo ecc. Avvicinandoci al mio campo professionale, stiamo iniziando a essere testimoni del fatto che, in coerenza con l’ignominiosa sconfitta della classe degli “esperti”, l’antropologia statunitense – esercitando la propria egemonia su scala internazionale – non verrà risparmiata dalla mattanza. Nel giro di pochi anni, l’antropologia professionista e istituzionale raggiungerà quella “linea zero” di cui questo sito (https://zeroanthropology.net/ – NdT) parla da molti anni ormai,  linea oltre la quale il potere e l’influenza scompaiono, mentre il supporto imperiale all’antropologia statunitense si indebolisce o crolla.

Di sicuro, il liberalismo progressista non scomparirà completamente, e nemmeno istantaneamente. Le idee non muoiono mai davvero, vengono solo archiviate. Il liberalismo progressista  rimarrà nei libri di testo sugli scaffali delle biblioteche, sarà ricordato e difeso dai suoi sostenitori viventi, ed elementi specifici del suo vocabolario potranno continuare a vivere. Alcuni cercheranno di resuscitare il progetto politico liberal, e in alcuni ambienti sembrerà persino ritornare in auge, ma questi sforzi saranno isolati e relativamente di breve durata.

Quella che Francis Fukuyama definiva “fine della Storia” si è rivelata essere più simile a un canto del cigno per il liberalismo progressista, anche se nemmeno lontanamente così splendido. Se, come la storiografia dominante ha sentenziato, “il comunismo ha fallito”, allora il liberalismo sarà il prossimo. Nonostante tutti gli sforzi affannosi per appropriarsi indebitamente del significato di “fascismo” per assegnarlo a Trump, nemmeno il fascismo rappresenta un movimento praticabile. Piuttosto che la fine dell’ideologia, sembra più l’aprirsi di qualcosa di nuovo – non c’è da stupirsi che molti di noi abbiano notato che il dibattito attuale trascende le dinamiche “destra contro sinistra”, e che la questione cruciale è ormai “globalismo contro nazionalismo”. Per ora, voglio semplicemente osservare il momento in cui ci troviamo, e provare a organizzare e analizzare le principali caratteristiche di questo collasso.

Un colossale fallimento nel convincere

I Democratici, un partito che ha legato le sue “fortune” a quelle dell’ideologia liberal, sembrano persi in una spirale di negazione di responsabilità per la loro sconfitta elettorale, accoppiata alla negazione della realtà. I leader del partito hanno accuratamente evitato le riflessioni su come sia stato possibile proporre e sostenere un candidato gravemente carente come Hillary Clinton – come se quest’ultima fosse una sorta di “scelta naturale”, in quanto apice di un processo evolutivo il cui punto terminale era stato predetto – e candidarla a prescindere dal fatto che l’elettorato la volesse o meno, come se non ci potessero essere obiezioni o alternative. Osservando come i Democratici hanno perso si capisce anche perché dovevano perdere. Improvvisamente, hanno fatto finta di ignorare che qualsiasi campagna presidenziale seria negli Stati Uniti, oltretutto orchestrata da consulenti ed “esperti” pagati profumatamente, è una campagna progettata per vincere il collegio elettorale, non il voto popolare. E infatti, durante i giorni dorati in cui i media parlavano soltanto dei sondaggi, ogni volta che Trump sembrava guadagnare terreno la replica immediata era “ma tanto non riuscirà mai a superare lo scoglio del collegio elettorale”, e la discussione finiva lì. Alcune delle previsioni più sconclusionate che assegnavano la vittoria alla Clinton, pronosticavano che avrebbe vinto il doppio dei voti del collegio elettorale di quelli che alla fine si è realmente aggiudicata nelle elezioni – ma il collegio elettorale in sé non è mai stato messo in discussione. Trump era considerato come destinato alla sconfitta proprio per via del collegio elettorale; ma quando ha vinto le doglianze erano tutte perché aveva vinto per via del collegio elettorale. La logica dei perdenti è una logica perdente.

Invece di affrontare i fatti che li avevano condotti alla sconfitta – e io avevo previsto che sarebbe andata così sin dal 9 novembre (il giorno dopo le presidenziali USA – NdT) – nel giro di pochi giorni i Democratici hanno iniziato a inventarsi la narrazione degli “hacker russi” e delle “notizie false” (“fake news”) orchestrate dai russi: loro non avevano perso contro Donald Trump, no, avevano perso contro Vladimir Putin! Ancora una volta: osservare come i Democratici hanno perso le elezioni rende evidente perché dovevano perderle. Una vera e propria escalation melodrammatica delle pericolose minacce contro la Russia già presenti nella campagna della Clinton, che ha comportato tra le altre cose la messa in moto di una nuova Guerra Fredda e la riproposizione della prospettiva di un olocausto nucleare (una cosa che i sostenitori della Clinton o hanno affrontato con leggerezza o magari consideravano un’alternativa più appetibile della sconfitta). I Democratici, nella loro caccia alle streghe per scovare “traditori”, creando una teoria del complotto dopo l’altra, si comportano come dei nuovi McCarthy, mentre i loro lacchè nei media si inventano un diluvio di menzogne e notizie false proprio mentre affermano di combattere le “fake news”.
Nel frattempo, Obama ci ha chiesto contemporaneamente di essere preso sul serio e di non essere preso sul serio: da un lato era furioso per l’“hacking dei russi”, mentre dall’altro lato faceva l’innocente, come se non si fosse accorto che questo evento certo (“lo fanno tutti”, diceva Obama riferendosi all’hacking) si stava per verificare, e in questo modo non ha dato alcuna spiegazione del perché il suo governo aveva fatto così poco per impedirlo, fermarlo o contrastarlo. Prima del giorno delle elezioni, Obama ha respinto le voci preoccupate di una votazione truccata, definendole “piagnistei” di quelli che riteneva sarebbero stati i perdenti – mentre dopo le elezioni, era lui il perdente che ha cominciato con i piagnistei. Da una parte, Obama afferma di avere informazioni sull’hacking russo; dall’altra, offre al pubblico solo asserzioni senza prove e pretese di credibilità che richiedono la fede degli astanti, invocando credito e fiducia,  senza offrire alcuna prova. E questi sarebbero i migliori rappresentanti della classe degli “esperti”, che fanno asserzioni scollegate dai fatti e ricorrono al “se non mi credete siete stupidi”?

Obama dichiarava orgogliosamente che la sua amministrazione era stata del tutto esente da scandali, eppure eccolo lì, a sostenere che un potere estero aveva interferito con un’elezione chiave e, che ci crediate o meno, per lui era stato impossibile impedirlo: abbastanza scandaloso. In una conferenza stampa cui ho assistito ai primi di dicembre, Obama faceva il suo predicozzo ai soliti “giornalisti” leccapiedi: una delle sue facce diceva agli astanti che le e-mail di John Podesta (Responsabile della campagna elettorale di Hillary Clinton – NdT) pubblicate da Wikileaks erano semplice gossip; poco dopo, l’altra faccia si lamentava che Wikileaks aveva alterato il corso delle elezioni.

Ma stiamo comunque parlando di Obama, con la sua coerente incoerenza, la sua comunicazione biforcuta, le sue due facce che si davano il cambio in quasi ogni discorso pubblico. Non è uno statista “sfaccettato”, la sua non è “complessità”, è semplicemente disonesto e falso. Fossi stato il solo ad accorgermene avrebbe avuto ben poca importanza, ma a quanto pare se ne sono accorti anche decine di milioni di elettori americani.

Hollywood e i PR

Questo colossale fallimento nel convincere gli elettori si è manifestato anche in altre aree critiche. I VIP di Hollywood sono stati coinvolti in almeno tre round di sfilze di video di personaggi celebri nelle quali gli elettori venivano esortati, con i toni più pressanti che degli impostori professionisti e pagati riuscissero a produrre, a fare l’unica scelta morale corretta: votare per la persona che aveva demonizzato milioni di elettori definendoli deplorevoli, bamboccioni e superpredatori sessuali, la stessa persona responsabile di aver favorito la distruzione dello stato libico e di tutte le conseguenze che ciò ha comportato – l’esplosione del terrorismo in tutto il Nord Africa, rifugiati in fuga, una guerra civile durata anni. Una persona dotata di un curriculum comprovato nella creazione di pericoli. L’intimidazione degli elettori da parte degli attori di Hollywood e, ancora peggio, delle loro controparti più giovani su MTV, ha fallito miseramente.

E non è stata solo Hollywood a fallire, ma anche la maggior parte dei media mainstream, che a loro volta si trovano di fronte a livelli di fiducia da parte del pubblico in crollo verticale. Hanno fallito in modo eclatante, tanto quanto i media, anche tutta una serie di istituti di sondaggi, agenzie per le relazioni pubbliche, pubblicitari professionisti e consulenti di comunicazione strategica, e questo nella medesima società che ha inventato i PR e le Relazioni Pubbliche. Hillary Clinton si è autodefinita una leader del “soft power”, della capacità di convincere: ed ecco qui l’intera architettura del “soft power” che va a picco, non (solo) all’estero ma, incredibilmente, in patria.

Il New York Times ha recentemente riportato che una conferenza dell’Associazione Internazionale dei Consulenti Politici “sembrava una sessione di terapia per un settore professionale psicologicamente in caduta libera”. Una delle conclusioni dell’articolo del NYT è che “l’esercito di consulenti della Clinton è stato sconfitto da un candidato scatenato, in apparenza privo di qualsivoglia coreografia che, secondo i dati più recenti, ha speso più soldi in magliette, cappelli, cartelloni e altri oggetti simili di quanti ne abbia spesi in consulenza sul campo, liste di elettori, e analisi di dati”.

E per quanto riguarda l’asserto “il sesso vende”, quest’elezione ha sconfitto anche questa ovvietà. Ogni giorno, settimana dopo settimana, ed eclissando quasi completamente qualsiasi altra notizia (incluse le pubblicazioni delle mail di John Podesta da parte di Wikileaks), la maggior parte dei media mainstream hanno martellato incessantemente Trump con storie sempre più scabrose di palpeggiamenti sessuali e commenti sessisti. Quando si sono scontrati in un dibattito faccia a faccia per la prima volta, la Clinton ha tentato immediatamente di screditare Trump riportando il racconto esagerato, unilaterale e farsesco di una ex Miss Venezuela. E i social media sono stati anche più gretti, diffondendo voci di incesto troppo disgustose per riportarle qui, anche in parafrasi. Tutto ciò, con che effetto?

Per coloro che si dedicano allo studio di media, pubbliche relazioni, propaganda ed imperialismo culturale, il risultato di queste elezioni avrà un significato duraturo, soprattutto perché hanno messo in discussione parecchie cose che venivano date per scontate.

Finanziatori corporate, supporto internazionale

Si è dibattuto a lungo durante le elezioni sul ruolo dei finanziatori, e del denaro che erogano ai candidati, nella politica elettorale statunitense. Hillary Clinton ha raccolto senza dubbio la maggior parte dei finanziamenti e delle donazioni, spendendo circa il doppio di Trump per la sua campagna elettorale, quasi il triplo in pubblicità televisiva. La “verità” consolidata che il denaro garantisce il raggiungimento dei risultati politici desiderati è stata spazzata via. Ciò non vuol dire che il denaro non conti più niente nel processo elettorale, significa invece che avere un sacco di soldi da spendere non garantisce affatto un risultato certo. La Clinton poteva anche contare sull’appoggio della maggioranza degli Amministratori Delegati delle Aziende nella Fortune 500 (lista delle 500 più grandi aziende americane per fatturato, pubblicata annualmente dalla rivista Fortune – NdT), alcuni dei quali, come l’AD di HP, sono arrivati a indire conferenze stampa nelle quali accusavano Trump di essere un “fascista”, paragonandolo ad Adolf Hitler e a Benito Mussolini. È di pubblico dominio, inoltre, che milioni di dollari sono entrati nelle casse della Clinton Foundation, versati da governi stranieri e corporation transnazionali. Ma anche se la Clinton si è dannata a raccogliere fondi e donazioni persino negli ultimi giorni della campagna elettorale, tutto ciò non è servito a niente. Nemmeno la miriade di endorsement subdoli, indiretti e talvolta espliciti da parte di leader stranieri e capi di istituzioni internazionali, dal Consiglio dell’Unione europea alla Commissione per i Diritti umani delle Nazioni Unite fino alla NATO, ha avuto un impatto sufficiente. Neanche i moniti di “prudenza”, con ovvie implicazioni, da parte dei direttori delle principali istituzioni finanziarie multilaterali sono riusciti a spostare il risultato delle elezioni in favore della Clinton.

Libri venduti

Un’altra prova del fallimento di Hillary Clinton nel vendere il suo messaggio è nel fatto che il suo libro non è stato capace di vendere copie, e questo durante il picco della campagna elettorale, quando l’interesse pubblico avrebbe dovuto essere alle stelle. Il New York Times, una voce non certo ostile alla Clinton, ha riportato che il suo ultimo libro, Stronger Together, “ha venduto solo 2.912 copie nella sua prima settimana nelle librerie”, quando solitamente le vendite nella prima settimana dalla pubblicazione costituiscono un terzo del totale di copie vendute, e concludeva: “I dati di vendita… rendono il libro quello che l’industria editoriale chiamerebbe un flop”. La Clinton si è fermata un istante a riflettere, magari a considerare questo fatto un segno, tenendo conto anche dei suoi rendimenti decrescenti duranti gli anni? Stronger Together (2016) ha venduto meno copie di Hard Choices (2014), che deluse a sua volta le aspettative, e vendette anche esso meno copie del libro precedente, Living History (2003). Ogni libro pubblicato dalla Clinton ha venduto sempre meno copie del precedente. Negli uffici dei Democratici i grafici di vendita li fanno tutti con linee rosso fuoco che vanno solo verso l’alto?

Mondo Accademico, antropologia, e invenzione dell’opinione pubblica “Anti-conoscenza”

Molti accademici hanno scritto saggi via via più aspri e risentiti per lamentarsi dell’opinione pubblica, del popolo – ovvero, di coloro che costituiscono la loro clientela e da cui dipendono i loro finanziamenti. Un cosiddetto “stato d’animo anti-conoscenza” è la comoda invenzione usata per spiegare perché una larga parte della popolazione (una maggioranza, nel caso della Brexit e del referendum italiano) si rifiuta di ascoltare i loro oscuri moniti sull’inevitabile sventura derivante da soluzioni nazionali in un mondo ormai “inevitabilmente”, “irreversibilmente” globalizzato. Questo è il classico caso degli “esperti”, membri della quasi-casta dei professionisti, che rivendicano un monopolio speciale non solo sulla conoscenza, ma sulla verità. È già acclarato che costoro hanno tentato di monopolizzare la conoscenza, disincentivando l’istruzione superiore, con numerose barriere erette lungo tutto il cammino per accedervi. Ma ora sostengono non solo di sapere di più, ma di sapere cosa è meglio. Il sistema attuale, lo status quo che stavano difendendo, secondo loro andava bene per la maggior parte delle persone – anche se la maggior parte delle persone aveva accesso all’informazione, ed esperienze personali, che ridicolizzavano le cheerleader accademiche. E ancor peggio che ridicolizzarli, questa divisione rendeva evidente da che parte stavano gli accademici: “anti-conoscenza” è uno slogan elitista, ovvero anti-popolo.

Gli economisti, come al solito, sanno meglio di tutti cosa è vantaggioso per il popolo e tentano di convincerlo che la realtà che vive non è rilevante. Come una caricatura degli stalinisti, gli economisti neoliberisti partono da una semplice ipotesi: la teoria ha sempre ragione, è il popolo ad avere torto. Come potevano questi Soloni spiegare la bontà del progetto neoliberista di Obama, che ha prodotto i risultati riportati di seguito (come da rilevazioni della stessa Federal Reserve americana)? Questo è un riassunto dell’“eredità” socio-economica di Obama:

Obama:

(1) Calo dei redditi delle famiglie

(2) Calo del tasso di partecipazione della popolazione civile alla forza lavoro

 

(3) Calo del tasso di chi vive in case di proprietà

(4) Aumento del numero di persone che percepiscono aiuti alimentari dal governo (food stamps)

 

(5) Aumento del prezzo delle polizze sanitarie

 

 

(6) Aumento del debito degli studenti universitari

 

(7) Aumento della disuguaglianza di reddito per gli afro-americani

 

 

(8) Aumento della stampa di denaro

(9) Massiccio aumento del debito pubblico

Quindi, mentre i giornalisti si inventavano lo spauracchio delle fake news – e producevano a loro volta notizie false per combattere la pericolosa minaccia che il costante calo della fiducia da parte dell’opinione pubblica comportava per i loro profitti – nel mondo accademico il concetto parallelo era l’“anti-conoscenza”. E il veicolo principale di questi punti di vista negli USA e nel Regno Unito sono stati i periodici scientifici The Times Higher Education, Inside Higher Ed, e The Conversation (l’ultimo dei quali è finanziato da una serie di banche e fondazioni).

L’antropologia statunitense continua a offrire testimonianze del suo fallimento nel convincere. A questo proposito, l’antropologia mainstream negli USA, considerato il suo allineamento al partito Democratico, ha qualcosa di abbastanza significativo in comune con il programma militare Human Terrain System (HTS) dell’esercito degli Stati Uniti (programma di supporto che reclutava esponenti delle scienze sociali per fornire ai comandanti militari una conoscenza delle popolazioni presenti nelle regioni in cui erano distaccati – NdT), criticato dai leader statunitensi della disciplina. Il primo indizio per i leader militari che il programma HTS era inutilizzabile come mezzo di contro-insurrezione e pacificazione avrebbe dovuto essere il fallimento dell’HTS nel convincere persino i suoi stessi componenti – e per “suoi stessi componenti” intendo i colleghi accademici tra i quali veniva effettuato il reclutamento. Se non sei in grado di “pacificare” i colleghi universitari, dei quali conosci bene linguaggio, usi e costumi, come puoi pretendere di sconfiggere i talebani? Allo stesso modo, se gli antropologi statunitensi comprendono così poco la loro stessa società di appartenenza che l’elezione di Trump li ha presi completamente alla sprovvista, come possono pretendere di insegnare a comprendere società diverse dalla loro? Invece, nel totale disprezzo della massa degli elettori della classe operaia, gli antropologi statunitensi si sono ri-dedicati con rinnovato vigore alle politiche di occultamento di classe. E quindi hanno proposto un “incontro di lettura antropologica” focalizzato in parte sui problemi del razzismo, per protestare contro l’insediamento di Trump.

Un altro esempio del fallimento nel convincere i loro stessi membri emerge dal voto tenuto tra i membri della Associazione Antropologica Americana, per approvare boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele. Dopo un primo ottimismo, il voto non ha raccolto un supporto sufficiente da parte dei membri dell’associazione. Quelli che avevano proposto la mozione e avevano spinto per la sua approvazione allora si sono messi a dare la colpa “a ingerenze esterne” (vi ricorda niente?). Nemmeno una volta si sono fatti la domanda se ci fosse qualcosa che non andava nel loro messaggio, o nel contesto in cui veniva promosso. Invece, dovevamo credere che qualche membro dell’intelligence israeliana dall’altro capo del mondo aveva avuto più successo nel convincere degli antropologi statunitensi, di altri antropologi statunitensi. Per quanto riguarda l’accusa di “ingerenza esterna”: è esilarante che essa provenga proprio dagli antropologi USA, dato che “ingerenza esterna” è esattamente quello che loro stanno facendo nei confronti di Israele.

L’attaccamento degli antropologi USA a Obama e Clinton, del tutto scollegato dal loro effettivo operato, caratterizzato dall’incremento della diseguaglianza e dall’aumento delle guerre, ha seguito la stessa politica di occultamento di classe. Uno di loro si è sperticato in lodi romantiche alla “coalizione dei diversi”, attribuendo al “meticciato” bellezza e valore sociale a scapito dei vituperati lavoratori bianchi (e prevedendo la vittoria della Clinton). Un altro antropologo statunitense dell’Università di Chicago ha pubblicato un lungo, verboso mattone esoticista che esaltava le virtù della “marronificazione” della società, esaltava le popolazioni importate rispetto agli autoctoni, e di fatto dichiarava che la maggioranza della classe lavoratrice è irrilevante, spregevole e sostituibile. Che questo articolo sia apparso in una pubblicazione finanziata in larga parte dall’Open Society Institute di George Soros non dovrebbe sorprendere nessuno.

Gli accademici che avevano avuto ben poco, o niente, da dire sul neoliberalismo adesso escono dalle loro tane – e scrivono saggi di critica concentrati esclusivamente su Trump. Hanno scoperto adesso lo “stato corporativizzato”. Quelli che si oppongono all’insediamento di Trump non si sono mai opposti all’insediamento di Obama, nonostante tutta la loro presunta consapevolezza teorica critica. Bruno Latour, il guru degli antropologi americani (dopo essere stato ridicolizzato in Europa), ha rimediato all’assenza della sua opinione nelle discussioni riguardanti le elezioni americane: ha aspettato che fossero finite in modo da tentare di sembrare saggio con uno sforzo minimo, mantenere felice la sua clientela americana, tenere alte le vendite dei suoi libri, e assicurarsi una continua presenza alle conferenze che contano. La Los Angeles Review of Books ha prontamente pubblicato il suo minuscolo “contributo”.

Diana Johnstone ha fatto ottime osservazioni riguardo il fallimento dell’establishment accademico, che vale la pena citare per intero.

“La triste immagine degli americani come cattivi perdenti, incapaci di affrontare la realtà, deve essere attribuita in parte al fallimento etico della cosiddetta generazione di intellettuali del 1968. In una società democratica il primo dovere di uomini e donne dotati di tempo, inclinazione e capacità di studiare la realtà in maniera seria, è condividere la loro conoscenza con chi non ha i loro stessi privilegi. La generazione di accademici la cui coscienza politica fu temporaneamente incrementata dalla tragedia della guerra del Vietnam avrebbe dovuto rendersi conto che era suo dovere utilizzare la sua posizione per educare il popolo americano, soprattutto sul mondo che Washington voleva ridisegnare e la sua storia. Invece, la nuova fase del capitalismo edonista ha offerto agli intellettuali le migliori opportunità per manipolare le masse, invece di educarle. Il marketing della società del consumo ha persino inventato una nuova fase delle politiche identitarie, creando il mercato dei giovani, il mercato dei gay, e così via. Nelle università, una massa critica di accademici ‘progressisti’ si è ritirata nel mondo astratto del postmodernismo, finendo per canalizzare l’attenzione della gioventù sul come reagire alla vita sessuale delle altre persone, o sulla ‘identità di genere’. Questa roba esoterica alimenta la sindrome ‘pubblica o muori’ ed evita agli accademici delle scienze sociali di dover insegnare qualsiasi cosa che possa essere considerata una critica alla spesa militare americana o agli sforzi falliti degli Stati Uniti per affermare il loro eterno dominio sul mondo globalizzato. L’argomento più controverso uscito dalle università americane è una discussione su chi dovrebbe usare quale toilette.

“Se gli snob intellettuali sulle fasce costiere degli USA possono deridere con così tanto autocompiacimento i poveri ‘deplorevoli’ dell’entroterra americano, è perché loro stessi hanno abdicato al loro principale dovere sociale: la ricerca e la condivisione della verità. Rimproverare il popolo per i suoi atteggiamenti ‘sbagliati’ mentre si dà un esempio sociale di sfrenata promozione personale produrrà solamente la reazione anti-élite chiamata ‘populismo’. Trump rappresenta la vendetta del popolo che si sente manipolato, dimenticato, e disprezzato”.

E questo ci porta alla sconfitta dei professionisti

La caduta della classe dei professionisti

Abi Wilkinson ha scritto su Jacobin: “Che nessuno sia fisicamente in grado di portare a termine un lavoro meglio dei professionisti è uno dei dettami cardine dell’élite liberal”, aggiungendo:

“Sospettosa sulla democrazia di massa e ringalluzzita dalla caduta dell’Unione Sovietica, l’élite liberal arrivò alla conclusione che eravamo giunti alla fine della Storia: ogni altro ordine sociale era stato tentato e si era rivelato inferiore. Si presumeva che la democrazia capitalista, supportata da esperti preparati, acuti e benintenzionati, fosse emersa dalla mischia come vincitrice incontestata. Queste persone non potevano spiegarsi il crescente rifiuto dello status quo politico ed economico   se non come un’improvvisa epidemia di irrazionalità e di autolesionismo. Certo, c’è sempre spazio per migliorare, dicevano, ma a chi mai verrebbe in mente di abbattere o alterare in maniera significativa un sistema eccellente come quello che già abbiamo?

“Se la politica altro non è che l’efficace amministrazione del sistema vigente – se non richiede altro che affidarsi all’abilità di un buon pilota – allora sono l’esperienza e la capacità tecnica i requisiti principali. Le differenze ideologiche sono immateriali, gli interessi contrapposti sono obsoleti”.

Wilkinson ha scritto queste parole per mettere in luce l’elitismo racchiuso in una recente, famosa vignetta del New Yorker, che (di nuovo) rappresenta l’elettore medio pro-Trump o pro-Brexit come “anti-conoscenza”, come non qualificato per governare.

(“Questi tronfi piloti hanno perso completamente il contatto con la realtà dei passeggeri come noi. Chi pensa che debba guidare io l’aereo?”)

Wilkinson quindi procede a smontare completamente la metafora dell’aeroplano:

“(nella vignetta) si dà per scontato che gli attuali piloti abbiano sempre fatto un buon lavoro. E se invece avessero fatto schiantare l’aereo a intervalli regolari, rifiutandosi di riparare i danni prima di decollare di nuovo? E se, per la negligenza degli addetti alla manutenzione, le persone in classe economica fossero costrette a reggersi ai sedili con tutta la loro forza per non essere spazzati via, dato che alcuni dei loro finestrini sono sfondati? E se, in altre parole, ai piloti non sembra importare granché del benessere e della sicurezza dei passeggeri in classe economica perché sono troppo occupati ad accontentare i passeggeri di prima classe? Questa descrizione è molto più vicina alla realtà dei fatti”.

Vale la pena leggere Listen Liberal (“Ascolta, Liberal”) di Thomas Frank, che ha attirato l’attenzione durante le elezioni USA, soprattutto per il capitolo dedicato alla “Teoria della Classe Liberal”, dove vengono riportati numerosi scritti di sociologi e scienziati politici. Il libro si apre con una citazione del libro di David Halberstam’s del 1972 “The Best and the Brightest” che parla di “un’élite speciale, una certa razza di uomini che si autoperpetua. Uomini legati l’uno all’altro piuttosto che legati allo Stato; nella loro testa costoro diventano responsabili dello Stato, ma non rispondono ad esso”.

Invece di concentrarsi sull’“un percento” degli ultra-ricchi, Frank ci chiede di osservare in maniera critica il “dieci percento”, che include “le persone al vertice della gerarchia nazionale dello status professionale”, dai cui ranghi proviene il laureato dell’Ivy League Obama (L’Ivy League è un gruppo di otto università del Nord-est degli USA considerate le migliori del Paese – NdT), nonché  la maggior parte dei laureati Ivy League che componevano il suo gabinetto, e che spiega la pletora di commenti autoassolutori e autoadulatori di Obama su coloro che hanno le “qualifiche”, che sono “qualificati” per  governare, quelli che “sanno di cosa parlano”. I professionisti apprezzano le competenze e i curriculum, e tendono ad ascoltarsi solo l’uno con l’altro. Esercitano un monopolio sul potere di diagnosticare e su quello di prescrivere, consultandosi a vicenda: “I professionisti sono autonomi; a loro non è richiesto di prestare attenzioni alle voci che provengono dall’esterno del loro raggio di esperienza” (Frank, 2016, pag.23). I professionisti enfatizzano la “cortesia” nei rapporti reciproci (da qui l’incessante richiamo a “moderare i toni”), e dimostrano un sommo disprezzo per le persone di rango inferiore, inclusi i professionisti precari. I tecnocrati post-industriali, quelli che osannano “l’economia della conoscenza” e “l’istruzionecome soluzione di tutti i problemi sociali, hanno generato la loro ideologia personale: il professionalismo. Frank nota che, come ideologia politica, il professionalismo è “intrinsecamente a-democratico, dato che assegna la priorità all’opinione degli esperti rispetto a quelle del pubblico” (pag. 24). Anche se di solito affermano di agire in nome dell’interesse pubblico, Frank osserva che i professionisti hanno abusato sempre più di frequente del loro potere monopolistico per tutelare i loro interessi, agendo sempre di più come una classe sociale (pag.25), una “classe di manager illuminati”, quasi un’aristocrazia (pag. 26). La critica di Frank delinea come i Democratici siano diventati il partito della classe dei professionisti, sbarazzandosi dei lavoratori lungo la strada (pag.28). E come conseguenza di ciò non si interessano minimamente della disuguaglianza, dato che è su di essa che si fonda il loro benessere. La disuguaglianza è essenziale per il professionalismo (pag.31). La meritocrazia si oppone alla solidarietà (pag.32).

Il Collasso dell’Ideologia Liberal

Tutto quanto fin qui detto si aggiunge alle ragioni in base alle quali sto sostenendo che non è stata solo Hillary Clinton, né solo i Democratici ad essere sconfitti, ma qualcosa di molto più vasto. Troppe “grandi” istituzioni hanno fallito i loro compiti fondamentali, troppo è caduto, con così tanto in palio, ad esempio: la globalizzazione, le basi militari USA, il commercio, le classi sociali, il sistema giudiziario, l’istruzione, la sanità ecc. Sì, i Democratici sono stati ridotti a un partito di sindaci, la cui “sopravvivenza” si registra solamente a livello comunale, dopo che hanno perso la Presidenza, il Senato, la Camera dei Rappresentanti, la maggior parte dei Governatori e la maggior parte dei Parlamenti statali. L’ampiezza e la profondità della sconfitta, e l’intera architettura utilizzata per diffondere e difendere la loro ideologia hanno fallito così miseramente, che non possiamo far altro che concludere che è stata la loro stessa ideologia a essere respinta, assieme al progetto sociale ed economico che essa sosteneva. Con questo rifiuto così assoluto, avvenuto contro tutte le aspettative, si deve supporre che il danno apportato sia irreparabile. I prodi difensori dell’attuale ordine globale che si esprimono sempre in termini di “irreversibilità” e “inevitabilità”, applicheranno questi medesimi concetti alla loro sconfitta? Un collasso di questa portata spalanca troppe porte che prima erano invisibili per essere liquidato come semplice singhiozzo momentaneo del sistema.

Qui in Canada, dove l’evoluzione politica va generalmente al traino degli Stati Uniti, assistiamo a un replay del collasso del progetto liberal che tenta di nascondere le differenze di classe e lo sfruttamento di classe sotto l’egida della “diversità” e delle politiche identitarie. Dal Gay Pride al Forum Economico Mondiale a Davos, l’itinerario del Primo Ministro Justin Trudeau rispecchia spesso quello che ormai è diventato lo standard dell’élite liberal. Questa non è una coincidenza: come abbiamo appreso dalle e-mail di Podesta, Trudeau è un surrogato della Clinton. Egli veniva identificato in questo modo: “Il Primo Ministro Trudeau è un alleato di vecchia data del CAP [Center for American Progress, alleato del Partito Democratico]…un partner attivo ed impegnato del nostro programma per il progresso globale”. Ad un’altra email era allegata una foto in cui John Podesta sussurrava nell’orecchio di Trudeau. Nell’oggetto della mail, Trudeau viene definito “Mr.Canada”. Mentre “Mr.Canada” dichiara di sostenere il “femminismo,” non ha avuto niente da offrire ad una madre lavoratrice in difficoltà che viene ridotta alla povertà e buttata in mezzo alla strada dalle tasse sulle emissioni, in un Paese ricco di materie prime che potrebbe essere energicamente indipendente per i prossimi due secoli, se la sua energia non fosse drenata per essere venduta sul mercato mondiale. Mr.Canada dichiara fiero di sostenere la “diversità,” eppure aderisce al monolinguismo in Quebec, con un arrogante disprezzo per una anglofona quebeckiana preoccupata per la sua tutela sanitaria. Si spertica in lodi per il suo nuovo Ministro per gli affari esteri, elogiandone la padronanza della lingua russa, mentre minimizza il fatto che a quello stesso ministro è vietato l’ingresso in Russia, grazie alle controsanzioni russe contro il Canada, che abbiamo inutilmente causato. Adesso, il Canada pretende di diventare il portabandiera del progetto imperialista liberal di Obama e Clinton, mettendosi sulla buona strada per diventare l’ultimo perdente a difendere la globalizzazione, nell’apparente convinzione di poter perseguire una globalizzazione composta da un unico Paese.

Oggi la classe dei professionisti, sostenitori del liberalismo morente, la trovate sui media a denunciare un’immaginaria ingerenza russa. Non che si siano improvvisamente uniti ai ranghi degli anti-imperialisti: non hanno detto una parola sulle più di 80 elezioni estere nelle quali gli Stati Uniti  hanno interferito, per non parlare delle dozzine di colpi di stato sostenuti e sponsorizzati dagli USA, e per non parlare del fatto che gli Stati Uniti hanno un’infrastruttura istituzionale (il National Endowment for Democracy, il National Democratic Institute, l’International Republican Institute, la  CIA, L’Ufficio per le Iniziative di Transizione) dedicata all’interferenza negli affari esteri, armata di decenni di politiche, leggi, e documenti strategici che guidano il corso e la profondità dell’intervento politico all’estero. È particolarmente ironico che un “hacker” (nel senso di apportatore di una tale ingerenza negli affari esteri-NdT) si lamenti così rumorosamente di essere stato, una volta tanto, hackerato a sua volta. In realtà, sono stati colpiti proprio nei campi che si rifiutano di riconoscere: che Putin è dieci volte più statista di un Obama; che i russi eccellono nella diplomazia; e che la Russia ha importanti lezioni antropologiche da insegnarci sulle relazioni internazionali…cose che ovviamente i nostri professionisti liberal hanno ignorato – e quindi hanno perso, punto e basta.

Il pezzo è stato pubblicato su vocidallestero.it

Crolla la grande truffa della Sinistra

capitalismo

Zero Hedge rilancia un’analisi marxista di Charles Hugh Smith che condanna senza appello la “sinistra”. Questa, limitandosi alla sola difesa dei diritti delle minoranze e salutando la globalizzazione come un’opportunità per tutti, ha completamente tradito il suo compito storico di contrapporre gli interessi del lavoro a quelli del capitale. Oggi tutte le istituzioni, la politica e le strutture pubbliche, lungi dall’essere state abolite dal capitale, che in realtà dello Stato ha bisogno, sono state volte a suo vantaggio. Ma la classe lavoratrice sembra sul punto di risvegliarsi e di accorgersi del tradimento.

 

di Charles Hugh-Smith dal blog Of Two Minds , 23 gennaio 2017

La sinistra non è solo allo sbando – è al completo collasso perché la classe operaia si è accorta del tradimento della sinistra e del suo abbandono della classe operaia per costruire ricchezza personale e  potere.  La fonte dell’angoscia rabbiosa che scuote il campo progressista del Partito Democratico non è il Presidente Trump – è il completo collasso della sinistra a livello globale. Per capire questo crollo, dobbiamo rivolgerci (ancora una volta) alla comprensione profonda che Marx aveva dello Stato e del capitalismo.

Non stiamo parlando del marxismo culturale che gli americani conoscono a livello superficiale, ma del nocciolo della sua analisi economica che, come notava Sartre, viene insegnata al solo fine di screditarla.

Il marxismo culturale attinge anch’esso da Engels e Marx. Nell’uso moderno, il marxismo culturale indica l’aperto scardinamento dei valori tradizionali – la famiglia, la comunità, la fede religiosa, i diritti di proprietà e un governo centrale limitato – in favore di un cosmopolitismo senza radici e uno Stato centrale espansivo e onnipotente che sostituisce la comunità, la fede e i diritti di proprietà con meccanismi di controllo statalista che impongono la dipendenza dallo Stato stesso, e una mentalità secondo la quale l’individuo è colpevole di pensiero anti-statalista fino a prova contraria, determinata dalle regole dello Stato stesso.

La critica di Marx al capitalismo è di natura economica: il capitale e il lavoro sono in eterno conflitto. Nell’analisi di Marx il capitale ha la meglio fino a che le contraddizioni interne del capitalismo non erodono dall’interno le sue capacità di controllo.

Il capitale non domina solo il lavoro; domina anche lo Stato. Perciò la versione “statale” del capitalismo che domina a livello globale non è una coincidenza o un’anomalia – è l’unico esito possibile di un sistema nel quale il capitale è la forza dominante.

Per contrastare il dominio del capitale sono sorti i movimenti politici socialdemocratici, per strappare alcune misure dalle mani del capitale e volgerle in favore del lavoro. I movimenti socialdemocratici sono stati ampiamente aiutati dal “quasi crollo” della prima versione del capitalismo statale [cartel capitalism] durante la Grande Depressione, quando la cancellazione del debito deteriorato avrebbe comportato la distruzione dell’intero sistema bancario e azzoppato la funzione principale del capitalismo, quella di far crescere il capitale stesso tramite un’espansione del debito.

I padroni del capitale, decimati, capirono di avere un’unica scelta: resistere fino ad essere rovesciati dall’anarchismo o dal comunismo, oppure cedere un po’ della loro ricchezza e del loro potere ai partiti socialdemocratici in cambio di stabilità sociale, politica ed economica.

In termini generali si direbbe che la sinistra favorisce il lavoro (i cui diritti sono protetti dallo Stato) mentre la destra favorisce il capitale (i cui diritti sono ugualmente protetti dallo Stato).

Ma nel corso degli ultimi 25 anni di neoliberalismo globalizzato, i movimenti socialdemocratici hanno abbandonato il lavoro per abbracciare la ricchezza e il potere che gli venivano offerti dal capitale. L’essenza della globalizzazione è questa: il lavoro viene mercificato mentre il capitale mobile è libero di girare in qualsiasi angolo del mondo per cercare il costo del lavoro minore possibile. Al contrario del capitale, il lavoro è molto meno mobile, non è in grado di spostarsi fluidamente e senza frizioni come fa il capitale, alla ricerca di opportunità e di scarsità da sfruttare a proprio vantaggio.

Il neoliberalismo – l’apertura dei mercati e delle frontiere – permette al capitale di schiacciare il lavoro senza alcuno sforzo. I socialdemocratici, nel momento in cui abbracciano l’idea dei “confini aperti”, istituzionalizzano l’apertura all’immigrazione; questa disintegra il valore della forza lavoro dato dalla sua scarsità  sul mercato interno, e permette di abbassarne il prezzo grazie al lavoro degli immigrati, a tutto vantaggio del desiderio del capitale di abbattere i costi.

La globalizzazione, la finanza neoliberale e le politiche di immigrazione determinano il crollo della sinistra e la vittoria del capitale. Ora è il capitale a dominare totalmente lo Stato e le sue strutture clientelari – i partiti politici, le lobby, i contributi alle campagne elettorali, le fondazioni di beneficienza che operano a pagamento, e tutte le altre strutture del capitalismo di Stato.

Per nascondere il crollo della difesa economica del lavoro da parte della sinistra, i sostenitori della sinistra e la macchina delle pubbliche relazioni hanno sostituito i movimenti per la giustizia sociale alle lotte per acquisire sicurezza economica e capitale. Questo è riuscito alla perfezione, e decine di milioni di autoproclamati “progressisti” si sono bevuti la Grande Truffa della sinistra, secondo la quale le campagne di “giustizia sociale” in nome di gruppi sociali emarginati sarebbero la vera caratteristica distintiva dei movimenti progressisti e socialdemocratici.

Questo giochetto da prestigiatore, questo abbraccio delle campagne per la “giustizia sociale” economicamente neutre, ha mascherato il fatto che i partiti socialdemocratici avevano intanto gettato il lavoro nel tritacarne della globalizzazione, dell’apertura all’immigrazione e della libera circolazione del capitale, che intanto era tutto contento dell’abbandono del lavoro da parte della sinistra.

Nel frattempo i furboni della sinistra si sono ingozzati delle concessioni elargite dal capitale in cambio del loro tradimento. Vengono in mente i “guadagni” di Bill e Hillary Clinton per 200 milioni di dollari, e innumerevoli altri esempi di arricchimenti personali da parte di autoproclamati “difensori” del lavoro.

Guardate il grafico seguente. Rappresenta la quota di PIL destinata al lavoro. Ora ditemi se la sinistra non ha abbandonato il lavoro in nome della propria ricchezza e potere personale.

La sinistra non è solo allo sbando – è al crollo totale – ora che la classe lavoratrice si è svegliata e si è resa conto del tradimento e dell’abbandono da parte di chi si è occupato solo del proprio interesse personale. Chiunque lo neghi non si è ancora reso conto della Grande Truffa della Sinistra.

Il pezzo è stato tradotto da Vocidallestero.it

Trump e l’insostenibilità della politica americana

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Alcune considerazioni sull’intervista che Donald Trump ha concesso al Sunday Times.

L’intervista dell’uomo che a giorni diventerà il 45° presidente degli Stati Uniti è davvero emblematica e per capirla nella sua essenza bisogna partire da una regola sacrosanta in economia – e penso nella vita in generale – : tutto ciò che non è sostenibile presto o tardi non sarà sostenuto.

Trump parla di una “NATO obsoleta” e in effetti gli USA si sobbarcano la difesa dell’Europa (bisognerebbe inoltre domandarsi cos’è l’Europa che viene difesa e da chi eventualmente viene difesa) pagandone le spese in buona parte. Oggi gli USA hanno un rapporto Debito/PIL superiore al 100%, una situazione sociale dove 42,6 milioni di statunitensi sopravvivono con i food stamp  (i buoni pasto statali per gli indigenti; da notare che alla fine dell’era Bush Jr. erano 32 milioni) e il tasso di partecipazione al lavoro è sceso dal 65% al 62%, il che significa che l’esercito degli invisibili è aumentato di milioni di persone.

Bastano questi dati per capire che quella di Trump non è una sparata ma un dato di fatto: gli USA non possono pagare la difesa di paesi ricchissimi quali l’Olanda, la Danimarca, la Norvegia, la Germania e l’Austria, giusto per fare qualche nome.

Per quanto riguarda l’Euro ha detto una verità di fatto, autoevidente. Come quella che disse il bambino della favola: “Il Re è nudo!”. L’Euro per come è strutturato è una manna per la Germania (e i paesi dell’ex area Marco), ma uno strumento di tortura per gli altri. Probabilmente il limite è stato superato e quindi bisogna attenderne l’implosione.

Altro discorso è ovviamente avversare chi ritiene – temo molto irresponsabilmente – che ciò che nascerà dopo l’Euro in Europa sarà meglio. Probabilmente non sarà così, ma a Trump questo aspetto non interessa. Sono fatti interni europei.

Per quanto riguarda la necessità di introdurre dei dazi doganali Trump dice l’ovvio. Aree un tempo ricchissime degli USA sono ridotte in ginocchio (basti pensare a Detroit, ridotta a una sterminata baraccopoli) a causa della concorrenza dei paesi emergenti. Una concorrenza che favorisce solo le grandi multinazionali che producono sfruttando la manodopera – altrettanto alla fame e senza diritti di quei paesi – per vendere a prezzi maggiorati nei paesi occidentali.

Anche questa è una situazione non più sostenibile e Trump lo sa bene (tanto che il voto in USA lo ha dimostrato): milioni di persone impoverite pur di difendere le ultime briciole di benessere sono ormai disposte a tutto. Chi – come la sinistra benpensante ormai allineata sui desiderata dei vecchi avversari di classe: multinazionali e miliardari – difende questo andazzo spacciandolo per internazionalismo è solo un ipocrita che sostiene il cosmopolitismo dei miliardari.

Appare paradossale che a dire queste cose sia quello che è senza dubbio un miliardario. Ma se si scava un po’ mica tanto paradossale: Trump è legato alla Old Economy. Poiché è sostanzialmente un immobiliarista, il suo business è legato al luogo e non dematerializzato e finanziarizzato e ha bisogno che il luogo dei suoi affari prosperi. Questo a differenza della Wall Street ha appoggiato sfacciatamente Hillary Clinton.

Bisogna nutrire molte speranze? No, non tantissime, la situazione è davvero delicatissima. Ma un briciolo di speranza c’è, a differenza di quello che sarebbe accaduto con la vittoria della Clinton: guerra alla Russia. Certamente la parola sarebbe stata scritta con una bella vernice rosa, umanitaria, post moderna, gender friendly, femminista… ma sempre di guerra si sarebbe trattato. E una guerra davvero brutta.

Non ci rimane che sperare che lo “Stato profondo” americano ormai colonizzato dai neocons (equamente suddivisi tra democratici e repubblicani) non riesca a legargli le mani.

Pezzo originariamente pubblicato su Megachip

Syriana: la cecità dell’Occidente e dell’Italia

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Zeroconsensus vi propone un interessante articolo di Alberto Negri pubblicato oggi su il Sole24Ore che fa il punto sulla crisi mediorientale e sulla disastrosa assenza di strategia sia della Nato, dell’UE, degli USA e anche dell’Italia.

di Alberto Negri

La Sigonella di Erdogan si chiama Incirlik, la base aerea concessa agli Usa per i raid anti-Isis. I turchi minacciano di chiuderla se gli americani non daranno loro soddisfazione, ovvero abbandonare i curdi siriani ritenuti da Ankara come il Pkk un gruppo terroristico e consegnare l’imam Gulen in auto-esilio dal ’99 in America.
Si può definire un ricatto oppure un modo di sventolare la bandiera del nazionalismo dopo aver rinunciato ad abbattere Assad, come è stato proclamato da Ankara per cinque anni. «Stiamo combattendo una nuova guerra di indipendenza», ha dichiarato Erdogan. Il fondatore della patria Ataturk, astuto stratega, si rivolterà nella tomba ma ognuno si salva alla sua maniera.
Come ha condotto Erdogan, fino a qualche tempo fa, la lotta al terrorismo? Ha aperto “l’autostrada dei jihadisti”, poi ha rilanciato la guerra ai curdi, buttando all’aria l’accordo con il Pkk raggiunto dal capo dei servizi Hakan Fidan, e quando ha perso la partita siriana con la caduta di Aleppo si è messo d’accordo con Putin e l’Iran.
Mosca e Teheran, due Stati sotto sanzioni occidentali, hanno imposto a un membro della Nato di mettere sotto controllo l’opposizione a Damasco in cambio della mano libera sui curdi siriani, una volta appoggiati anche dai russi.
Erdogan ha piegato la testa e ora fa pressione sugli alleati storici, americani ed europei: anche loro hanno perso la battaglia contro Assad ma fanno finta di niente perché si trincerano in una coalizione, di cui fa parte anche la Turchia, che assedia l’Isis a Mosul da cinque mesi.
La Turchia, dove gli attentati si susseguono, come si è visto ieri a Smirne, è un Paese in bilico: deve seguire la road map della Russia ma anche degli Usa e teme di restare stritolata un giorno da un possibile accordo tra Putin e Trump.
Il confronto strategico con la vicina repubblica islamica dell’Iran, pur sanzionata da tutti per decenni, è impietoso. Gli Usa hanno eliminato tutti i nemici dell’Iran: i talebani in Afghanistan nel 2001, Saddam in Iraq nel 2003, poi gli iraniani hanno visto gli ostili sauditi, i maggiori clienti di armi americane, impantanarsi in Yemen contro gli Houthi sciiti e dopo avere firmato il 14 luglio 2015 l’accordo sul nucleare, hanno trovato la Russia, una superpotenza atomica, pronta a schierarsi in Siria salvando l’asse sciita Teheran-Baghdad-Damasco-Beirut.
La Turchia oggi è il grande malato d’Oriente e Occidente insieme. I jihadisti si vendicano di Erdogan, i curdi colpiscono, gli apparati di sicurezza sono diventati più vulnerabili per le epurazioni seguite al golpe fallito di luglio.
La crisi della Turchia ci interessa direttamente. Gli europei chiederanno a Erdogan non solo di fare il custode di due milioni di profughi siriani ma di diventare l’argine al ritorno dei foreign fighters che combattevano per l’Isis e altri gruppi radicali.
Certo non si comincia bene quando il “poliziotto” ricatta il suo maggiore alleato, gli Stati Uniti. Ma siccome è tornato amico di Putin, Erdogan pensa di usare Nato e Usa per negoziare con Mosca svincolandosi da una fedeltà vista ormai come fumo negli occhi: l’America ospita Fethullah Gulen ed è ritenuta l’ispiratrice del golpe d’estate.
La lotta al terrorismo coincide quindi con un altro problema, quello della Turchia, che americani ed europei hanno lasciato incancrenire. Che cosa hanno fatto per frenare la deriva di Erdogan? Quasi niente. Anzi gli Usa dell’ex segretario di Stato Hillary Clinton lo hanno incoraggiato nell’avventura siriana insieme alla Francia e alle monarchie del Golfo. Se Erdogan ha aperto l’autostrada della Jihad, americani ed europei hanno poi spalancato in Medio Oriente un’autostrada a Putin.
Il punto è che la corsa di Erdogan contro Assad è finita e quella successiva, contro il Califfato, è densa di incognite.
Abbattere l’Isis è fondamentale per privare i jihadisti dell’arma di propaganda delle conquiste territoriali: su questo si basa il mito sanguinoso del Califfato che ispira i terroristi. Ma non basta.
Chi farà l’offensiva a Raqqa, capitale dell’Isis? Secondo gli americani doveva essere una coalizione di arabi e curdi siriani ma questa opzione sembra naufragata. Ci sono alternative occidentali? No, a quanto pare. E questo avviene in un momento chiave: se il Califfato dovesse crollare, cosa accadrà alle legioni di Al Baghadi e ai foreign fighters, forse ventimila secondo i dati di Europol?
Ci dovremo affidare alla Russia, all’Iran, a Erdogan e anche ad Assad. Bisognerà meditare se non sia il caso di riaprire le ambasciate a Damasco, almeno a livello inferiore, perché è da lì che arrivano informazioni sui jihadisti. La Tunisia, pur ostile al regime siriano, lo ha già fatto perché ha 6mila foreign fighters tra Siria, Iraq e Libia. Ha riaperto anche l’Egitto di Al Sisi: fatto salvo il caso Regeni, forse serve rivedere la presenza diplomatica al Cairo in funzione della Libia dove l’Italia è stata spiazzata dall’ascesa del generale Khalifa Haftar sostenuto da egiziani, francesi e russi. Per l’Italia il fronte libico (immigrazione e sicurezza) è fondamentale è non può limitarsi a Tripoli e Misurata.
La lotta al terrorismo richiede, come ha sottolineato Gentiloni, la massima attenzione al contrasto della propaganda sul web e nelle carceri. Ma ci vuole una strategia nostra e occidentale per Siria e Libia. Tutti aspettano Trump ma intanto gli eventi in Medio Oriente vanno avanti. La guerra non dorme, il terrorismo non bussa alla porta, non prende appuntamenti. E l’Occidente, dimentico del passato, rischia di farsi sorprendere dal presente.

Fonte: il Sole24Ore (6-1-2017).

 

Galaverna

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La luce trapassa
Prismi di ghiaccio
Che colorano
La nostra anima

A Charles Baudelaire

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Come un negletto Ulisse
ha solcato infiniti mari:
dai paradisi artificiali
del club des Hashischins
alle Colonne del Tempio
dei figli del Filosofo Incognito:
Oh Louis Claude de Saint Martin
che l’hai illuminato!

Negli infiniti Tempi degli Spazi Cardinali
alla ricerca del volto della sua sifilitica Venere Nera
ha trovato l’infinita biblioteca Borgesiana
e il suo esercito di scimmie dattilografe.
Da lì, l’Ulisse, ha trafugato
le liriche dei Fleurs du Mal
mentre con occhi azzurri metallo
Rimbaud, da dietro uno scaffale
lo vide scappare.

 

Darth Vader sbarca a Siena?

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E quindi il Monte dei Paschi lancerà già lunedì il suo aumento di capitale. Ad un solo giorno lavorativo di distanza dall’autorizzazione della Consob per la conversione dei bond subordinati dei piccoli risparmiatori in azioni. Cosa può significare questa strana accelerazione?

Sostanzialmente le possibilità sono tre:

1) In appena 24h hanno contattato tutti i piccoli obbligazionisti e la risposta è stata entusiasmante quindi possono lanciare l’aumento di capitale a tamburo battente: (Probabilità 10%);


2) La situazione della liquidità della banca è drammatica. Il CdA ha completamente perso la testa e ha lanciato l’aumento di capitale già lunedì per evitare che finisca la liquidità (perché magari hanno finito la “carta elegibile” presso la BCE necessaria per ottenerla) e siano costretti a richiedere l’ELA (Emergency Liquidity Assistance). E’ chiaro che con un programma ELA aperto è impossibile varare un aumento di capitale. Sarebbe come ammettere che sei con un piede nella fossa. Intanto si apprende dal prospetto informativo dell’MPS che dall’inizio dell’anno hanno perso 20 miliardi di depositi con un’accelerazione in questa ultima fase dell’anno; ben 6 miliardi dal 30 Settembre al 13 Dicembre. Non oso immaginare in questa ultima settimana: (probabilità 89%);


3) Sbarco di Darth Vader a Piazza del Campo previsto per Lunedì mattina alle 10 a.m con immediato assalto a Piazza Salimbeni e per placare la sua ira lanciano l’aumento di capitale in anticipo:  (probabilità 1%).

Sapremo molto presto la verità.