
di Andrea Fumagalli (*)
Traggo questo passo sullo sviluppo ed evoluzione del capitalismo da un’intervista concessa da Andrea Fumagalli ad IHU on-line. Alla fine del post troverete il link sul quale troverete tutta l’intervista.
Uno degli effetti della crisi che è nata dai subprime è stata evidenziare l’instabilità strutturale del nuovo capitalismo, tra finanziarizzazione e globalizzazione. Non che tale instabilità non fosse nota ad alcuni studiosi, soprattutto estranei all’ambito del mainstream economico e borghese, ma almeno quello spartiacque ha reso evidente e diffusa tale consapevolezza. Ciò che invece doveva essere ancora indagato era verso quale direzione o direzioni tale instabilità avrebbe portato negli anni a venire. Al riguardo possiamo individuare tre linee di tendenza.
Il primo punto riguarda la natura del processo di accumulazione e la conseguente valorizzazione che ne è seguita, dopo il crollo finanziario e dei Pil nel biennio 2008-09. La crisi dei subprime può essere letta come l’esito di uno scostamento tra un processo di sfruttamento di un’attività lavorativa comunque interna ad una governance del mercato del lavoro (che prevedeva l’esistenza di una remunerazione sempre più precaria e compressa), e un processo di valorizzazione finanziaria di una struttura proprietaria privata che si voleva sempre più diffusa anche se sempre più impoverita.
I profitti delle grandi imprese multinazionali solo in parte derivavano direttamente dallo sfruttamento diretto del lavoro e se ciò avveniva si trattava dello sfruttamento di alcune parti dell’intero ciclo di subfornitura e di produzione, in particolare i nodi non direttamente interessati al core produttivo e tecnologico. Nonostante l’aumento dell’intensità di tale sfruttamento (precarizzazione elevata, riduzione dei diritti precedentemente acquisiti all’apogeo delle lotte nella fase alta del fordismo, scomposizione del lavoro, incapacità e spesso connivenza dei sindacati), tale base di estrazione di plusvalore non era più sufficiente di fronte all’estendersi della concorrenza globale e alla ridefinizione degli assetto geo-economici su scala mondiale con l’emergere di nuove potenze economiche capitalistiche. La valorizzazione capitalistica necessitava così di nuove fonti. La finanziarizzazione da un lato e l’accelerazione della mercificazione del territorio e della natura e la privatizzazione dei suoi beni dall’altro, potevano fornire una risposta adeguata, che si è rilevata, però insufficiente.
Da qui l’esigenza di inserire nel processo di finanziarizzazione in modo sempre più pervasivo la vita degli individui tramite il divenire rendita di porzioni crescenti del salario (soprattutto quello differito, grazie allo smantellamento dei sistema di welfare in Europa o la loro estensione in termini finanziari come è avvenuto con la riforma sanitaria di Obama negli Stati Uniti e come sta avvenendo oggi in America Latina).
La cartolarizzazione finanziaria delle condizioni di vita tramite lo sviluppo dei derivati (dalle case, ai diritti di proprietà intellettuali, alle assicurazioni sulla salute, sulla previdenza, sull’istruzione, ecc.) doveva in qualche modo compensare la possibile crisi di realizzazione dovuta all’incremento della concentrazione dei redditi a seguito di un processo di sfruttamento del lavoro che aveva raggiunto limiti non più superabili.
La crisi finanziaria del capitalismo cognitivo apre la strada al capitalismo bio-cognitivo . Il prefisso bio è, in questo caso, dirimente. Indica che l’accumulazione capitalista attuale si identifica sempre con lo sfruttamento della vita nella sua essenza, andando oltre allo sfruttamento del lavoro produttivo certificato come tale e quindi remunerato. Il valore-lavoro lascia sempre più spazio al valore-vita . Si tratta di un processo allo stesso tempo estensivo ed intensivo.
Estensivo perché l’intera vita nelle sue singolarità diventa oggetto di sfruttamento, anche nella sua semplice quotidianità. Nuove produzioni prendono piede. La ri/produzione sociale , da sempre operante nella storia dell’umanità, diventa direttamene produttiva ma solo parzialmente salarizzata; la genesi della vita (la procreazione) si trasforma in business; il tempo libero viene inscatolato, al pari delle relazioni amicali e sentimentali, all’interno di binari e di dispositivi che, grazie alle tecnologie algoritmiche, consentono estrazione di plusvalore (valore di rete); i processi di apprendimento e di formazione vengono inseriti nelle strategie di marketing e di valorizzazione del capitale; il corpo umano nelle sue componenti fisiche come cerebrali diventa la materia prima per la produzione e la programmazione della salute e del prolungamento della vita, grazie alle nuove tecniche bio-medicali.
Intensivo perche tali processi si accompagnano a nuove modalità tecniche e organizzative. La vita messa in produzione e quindi a valore si manifesta in primo luogo come intrapresa di relazioni umane e sociali. La cooperazione sociale, intesa come insieme di relazione umane più o meno gerarchiche, diventa la base dell’accumulazione capitalistica.
Il dibattito recente, soprattutto nell’ambito del marxismo autonomo, ha individuato nel comune il nuovo metodo di produzione . Si tratta di un aspetto rilevante per capire sia le forme dell’organizzazione della produzione e dell’impresa che del lavoro. Qui ci limitiamo a sottolineare come sia importante a non confondere il concetto di comune con quello dei beni comuni. E come la produzione del comune (espressione di Antonio Negri) rappresenti una nuova modalità del processo di sussunzione, che definiamo vitale e che va al di là della tradizionale dicotomia tra sussunzione formale e reale, di marxiana memoria. Il comune come metodo di produzione, in quanto forma di produzione, non può essere ontologicamente data (come invece sostiene Antonio Negri), in quanto è frutto dell’agire dei processi storici. Certamente è plausibile affermare che gli esseri umani vivono in “branco”, ovvero in comunità, e non individualmente e che quindi lo sviluppo di relazione sociali è intrinseco all’agire umano.
Il secondo punto riguarda la constatazione che il capitalismo bio-cognitivo è accompagnato da un accelerazione del progresso tecnologico. E’ ancora prematuro per affermare se un nuovo paradigma tecnologico è alle porte ma stiamo assistendo ad alcune avvisaglie che possono confermare questa ipotesi. Ciò che emerge è un progredire dell’ibridazione tra macchina e umano verso una direzione che vede allo stesso tempo sperimentazione di forme di automazione completa finalizzata alla sostituzione dell’essere umano in alcune sue funzioni rilevanti, da un lato, e innesti macchinici nel corpo umano, dall’altro. I settori dell’intelligenza artificiale, le biotecnologie, le nano tecnologie, la costruzione di tessuti umani con la sperimentazione genetica, le neuroscienze, l’industria dell’elaborazione di masse di dati sempre più complessi e indiviaualizzati (big data) ci mostrano una via nella quale il divenire umano della macchina si coniuga con il divenire macchinino dell’umano. Al di là della dinamica futura che tali traiettorie prenderanno, comunque verso la costruzione di un post-umano , ciò che ci interessa osservare è come la separazione tra uomo e macchinico venga meno. Non solo il rapporto tra lavoro astratto e lavoro concreto subisce una torsione ma anche il rapporto tra capitale costante e capitale variabile, tra lavoro morto e lavoro vivo, tende a modificarsi sempre più sino a una nuova metamorfosi tra capitale e lavoro.
Tale dinamica pone una serie di nodi teorici ed empirici rilevanti.
Il terzo punto riguarda l’indagine della nuova composizione sociale del lavoro che ne è derivata. Assistiamo al crescere di una soggettività del lavoro plurima e differenziata che rende di fatto impossibile, allo stato attuale dei fatti, l’individuazione di un’omogenea composizione sociale di classe. La coesistenza di forme non salariali, di forme di lavoro non pagato, di forme di semi-schiavismo, di forme di coinvolgimento emotivo-cerebrale, di forme etero dirette, forme di lavoro autonomo di III generazione, di forme di autorealizzazione e auto imprenditorialità (ad esempio, i makers) rendono difficilmente codificabile sia la composizione tecnica che politica del lavoro, ammesso che ancora queste due espressioni abbiano senso.
La crisi del lavoro salariato non apre tuttavia prospettive di superamento della condizione lavorativa, anzi la frammenta e la deprime ulteriormente. Sintomatico al riguardo è l’attuale tendenza all’annullamento della remunerazione monetaria di un numero crescente di prestazioni lavorative direttamente produttive e non assimilabile all’arcipelago del lavoro volontario e “libero” (free). La diffusione del lavoro non pagato (unpaid) non implica che non esista più remunerazione o che ci sia un furto di salario (un salario rubato) bensì una nuova forma di remunerazione che non viene definita dalla forma “salario”. Assistiamo così a nuove modalità di remunerazione del lavoro, caratterizzate da elementi sempre più simbolici, relazionali e immateriali.
Tali dinamiche portano a riconsiderare il concetto di ricomposizione tecnica del lavoro, soprattutto all’interno di un processo che si muove nella direzione del superamento della dicotomia umano-macchina. Tale tendenza significa che viene meno il rapporto capitale-lavoro? Siamo di tutt’altro avviso. Ciò che sta avvenendo, come sempre accade nel corso del cambiamento del paradigma tecnologico dominante, è una nuova configurazione di tale rapporto, dove l’elemento materiale e di conseguenza la sua misura in termini di remunerazione monetaria, perde di efficacia a vantaggio di un novo rapporto capitale-lavoro, ancor più intriso di elementi soggettivi di quanto non lo fosse già in precedenza.
L’attuale valorizzazione capitalistica si fonda sempre più sulla produzione di soggettività. Il capitale fisso si ibrida con il capitale variabile, il lavoro morto con quello vivo e viceversa. La sfida che abbiamo di fronte non è solo la riappropriazione del proprio capitale fisso ma anche, e forse soprattutto, la capacità di autogestione del proprio capitale variabile.
Passo tratto da ihuonline.unisinos.br
(*) È professore presso il Dipartimento di Economia Politica e Metodo Quantitativo della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Pavia, Italia.