La Germania e l’Europa sono un solo e indivisibile problema. Si sono formate assieme e, se dovranno cadere, cadranno assieme. Per “caduta della Germania” non intendiamo la sua sparizione come nazione o anche come stato, pensiamo invece a un ridimensionamento: dalla sua psicosi del Drang alla normalità di un’umanità inter-nazionale. Invece, per “caduta dell’Europa” intendiamo lo smantellamento dei suoi monopoli oltreconfine, la fine della sua appartenenza alla NATO, della convenzione di Lome, delle commissioni e delle altre strutture della CEE, l’abrogazione dei suoi poteri e delle sue pretese sovranazionali, la purificazione della sua “anima” razzista vecchia di cinquecento anni.
La Germania, in ogni caso, abbandonerà l’”Europa”, se non potrà dominarla. E andrà ancora una volta a est, come ha già cominciato a fare in Jugoslavia. La Gran Bretagna è già a mezza via nella traversata dell’Atlantico, malgrado i suoi ministri e la Camera dei Comuni abbiano optato per Maastricht, dopo l’imposizione di un secondo referendum danese per volontà della potenza una volta occupante della Danimarca, la Germania, nell’incontro dei ministri CEE del 1992. La Francia, come al solito, sta in mezzo e potrebbe andare in qualunque direzione. L’Italia è marginalizzata economicamente dall’acciaio, dalle banche e dalla moneta tedeschi, ma è più “europea” dei tedeschi stessi. Tuttavia, per quanto Agnelli abbia parlato di “politica transalpina”, nella pratica le multinazionali italiane hanno fatto migliori affari con gli investimenti in Libia, Algeria, Egitto, Kenya, Mozambico, Angola, Argentina, Irak, Iran e Sudafrica (dove l’Italia è uno dei tre principali partner commerciali). La disintegrazione lenta ma sicura dell’Europa della CEE può rivitalizzare il “mediterraneismo” di Mattei. Se questo mediterraneismo fosse decolonizzato, sarebbe preferibile all’aridità della politica “transalpina”.
Decolonizzazione, tuttavia, per i paesi come l’Italia ha un significato più ricco della semplice autonomia politica ed economica dalla Germania. Significa sciogliere le catene (Samir Amin ha parlato di “slegare”) che uniscono l’Africa all’Europa, inclusa l’Italia. Questo è un processo lungo e complesso di egualizzazione fra le nazioni a tutti i livelli, che con ogni probabilità renderebbe l’Italia meno ricca ma più felice (e l’Africa più ricca e più felice).
Questa egualizzazione tra le nazioni non è un sogno, ma una necessità realistica. Per paesi come l’Italia richiede non solo di confrontarsi con il “sud”, ma di porre un freno al Drang tedesco nel cuore dell’Europa. Per l’Italia questo secondo aspetto relazionale è vitale e urgente, dato che, se non riesce a metterlo in pratica, i movimenti separatisti regionali in Lombardia, Veneto e Alto Adige possono portare queste ricche regioni del nord sotto la diretta influenza e forse sotto il controllo tedeschi. C’è già una tendenza economica in questo senso. Ulteriori perdite territoriali e politiche della Jugoslavia possono far affacciare sull’Adriatico settentrionale la Germania e avvicinarla al Mar Nero, entrambe zone con cui l’Italia ha fruttuose relazioni storiche ed economiche. La Germania potrebbe essere capace di trasformare le crescenti tendenze economiche dell’Italia “del nord” in strutture politiche. Infine la nazificazione della Germania potrebbe favorire il rinascere e il rifiorire delle secolari radici del razzismo italiano.
Queste radici sono confiscate nel profondo del processo “colombiano”. È un fenomeno non tedesco ma europeo. Ci sono naziskin italiani, francesi e tedeschi. Essi rappresentano un’ultima rinascita del razzismo insito nel sistema colonile nei suoi luoghi natali dentro l’Europa.
Le “democrazie” europee richiedono un visto d’entrata agli africani e agli asiatici, che altrimenti non possono varcare i posti di guardia di cui gli Adenauer, Schumann, Spaak e De Gasperi hanno fabbricato la chiave. Si può notare molto fascismo nelle prigioni (i “neri” costituiscono il venti per cento dei carcerati, mentre rappresentano solo il tre per cento della popolazione dell’Europa comunitaria); e così nella legislazione, che presume la colpevolezza e non l’innocenza; nella polizia fiscale; nella vasta burocrazia improduttiva; nella partitocrazia corrotta; nelle “elezioni” insignificanti ma continue; nella “libera stampa” controllata dagli stati e dalle multinazionali; nella credulità da schiavi della maggioranza dei “cittadini”; nelle menzogne dei mezzi d’informazione, monopolizzati e controllori del pensiero; infine, in ogni casus belli dell’Occidente contro l’est e il sud.
Gli asiatici e gli africani sanno cosa sono il fascismo e il nazismo; nella realtà, non astrattamente. La media degli europei, uomini e donne, pensa di saperlo, ma quando il fascismo e il nazismo sono arrivati fra e sopra di loro, fra le due guerre mondiale, non li hanno riconosciuti, se non troppo tardi. Non stanno riconoscendo il fascismo che oggi si annida nella loro “democrazia”, anzi stanno aiutando la sua ideologia e le sue guerre in tutti continenti.
Questo servilismo attivo della maggioranza (naturalmente, c’è una minoranza dissenziente, ma è quasi impotente nel suo isolamento dalla vita e delle speranze delle centocinquanta nazioni non OCED) sta prolungando una morte vivente, la vita morente di un’Europa che, ogni giorno che passa, perde sempre di più la sua ragion d’essere. La sua “casa comune” sta cadendo a pezzi. Non ha futuro, sia che languisca come “Europa germanica”, sia che la Germania l’abbandoni per un’altra notte di Valpurga.
— Hosea Jaffe – “La Germania. Verso il nuovo disordine mondiale?” (1994)